“La guerra fredda e il mondo bipolare”. L’Enciclopedia Treccani titola così un capitolo dedicato agli effetti del secondo Dopoguerra.
Ma l’Europa bipolare lo divenne; i suoi padri spirituali invece lo erano già. A Jalta, dal 4 all’11 febbraio del 1945, a prendere le decisioni che cambieranno per le sempre le sorti del mondo contemporaneo, al tavolo delle trattative sedevano due bipolari e un sadico.
Nell’ordine: Sir Winston Churchill, affetto da sindrome maniaco-depressiva (all’epoca si chiamava così), Franklin Delano Roosevelt, grande ipertimico (siamo sempre nello spettro del bipolarismo), e Iosif Stalin, che Erich Fromm in Anatomia della distruttività umana definì “un caso clinico di sadismo non sessuale”.
Lasciamo perdere il dittatore russo, la sua patologia, condivisa dal coetaneo Adolf Hitler, non è affatto interessante, e per questo è misurabile. Diversi invece sono quei disturbi per i quali, non a caso, la moderna psichiatria parla di ‘spettro’, indicando con ciò una variabilità e una mobilità, e un’originaria imprecisione che ci rende tutti un po’ bipolari così come tutti un po’ autistici.
L’ineffabilità del male, quell’intrinseca natura che gli rende possibile declinarsi a diversi livelli d’intensità e mai in un’unica modalità (e infatti le polarità sono due) l’ha reso difficile da diagnosticare. Da sempre, infatti, è stato accomunato alla depressione, versione medica della più poetica malinconia, dimensione comunque unipolare del sentire umano.
Winston Churchill sapeva che era qualcosa di diverso e per quanto sottoscrivesse la generica diagnosi di depressione, preferiva chiamarlo ‘cane nero’, e da un raffinato intellettuale come lui c’era da aspettarselo. Quella del black dog è infatti una metafora che ha origine nel folclore popolare britannico, ma attraversa tutta la letteratura inglese, dal mostro Grendel di Beowulf, nei cui occhi brilla “una luce di baleno, simile al fuoco” alla celebre “bestia nera” protagonista de Il mastino dei Baskerville di Arthur Conan Doyle.
Se le patologie psichiatriche rendono umani, e quindi simpatici gli artisti, quando riguardano i politici destano, giustamente, più inquietudine. Pensare che il mondo in cui siamo nati sia stato disegnato da tre psicolabili non è consolatorio, per quanto aiuti a spiegare molte cose. Eppure, come sempre quando di mezzo c’è il ‘dato umano’, c’è patologia e patologia e, soprattutto c’è uomo e uomo. E non è da escludere l’ipotesi che sia soprattutto quest’ultimo fattore a ‘scegliere’ la patologia d’elezione.
Non credo che un sadico paranoide come Stalin (o Hitler) avrebbe mai potuto dire davanti al suo parlamento: “Non ho altro da offrirvi che sangue, fatica, lagrime e sudore” (13 maggio 1940), perché il sadico paranoide gode nel non trovare preparato il suo interlocutore, il suo piacere è nel tradire la sua fiducia.
Il bipolare ha una sua ingenuità e una sua spesso drammatica sincerità che gli fa confessare, ancor prima di sprofondare nel baratro in cui lui per primo soffrirà dilaniato dai morsi del suo cane nero, quello che andrà a fare. E nel momento ‘up’ della manìa la contestualizzerà in una visione, magari eccessiva, ma mai retorica.
“Se chiedete quale sia il nostro obiettivo, vi rispondo con una parola: la vittoria, la vittoria a ogni costo, la vittoria malgrado ogni terrore, la vittoria per quanto lunga e aspra possa essere la via; perché senza vittoria non vi è sopravvivenza”.
Sopravvivere. Ecco l’obiettivo.
Per l’Impero Britannico. Per un bipolare.
L’obiettivo non è creare ‘un uomo nuovo’ o epurare l’Europa da ‘razze’ inferiori, avere un sogno, per quanto mostruoso possa essere. L’obiettivo è sopravvivere. E soltanto chi deve farlo ogni giorno non si spaventa all’idea di combattere sui mari e gli oceani, le spiagge, i campi e le montagne, “con crescente fiducia… qualunque possa esserne il costo” (4 giugno 1940).
Solo chi ha paura di morire può dire (deve dire) “we shall never surrender”, perché se ti arrendi “tutto ciò che abbiamo conosciuto e amato, affonderà negli abissi di una nuova età oscura, resa più sinistra, e forse più prolungata, dalla possibilità di una scienza pervertita” (20 agosto 1940). E solo chi ha sfiorato l’abisso sa che l’unico modo per restare all’interno della comunità degli uomini, anche quando sei in preda a una bestia nera, è fare perno sull’etica, su quel dovere morale che segna la linea tra una persona e un animale.
“Stringiamoci dunque al nostro dovere”, esorta Sir Wiston Churchill a pochi giorni dalla drammatica aggressione tedesca all’Inghilterra. Discorsi che sono diventati azione, scelte, lacrime, sangue e morti, il costo altissimo che anche chi non era direttamente minacciato dalla follia nazista ha dovuto pagare.
Il 2017 si è aperto all’insegna dei discorsi e tutti ci siamo commossi e tutti ci siamo preoccupati.
Ha anticipato l’inizio dell’anno, il 31 dicembre, come di consuetudine, Barack Obama, presidente uscente, che ha promesso al suo popolo: “Sarò sempre al vostro fianco per garantire che questo paese abbia sempre la forza di rispettare le promesse dei nostri padri fondatori”, e ha concluso dicendo: “Tutti siamo uguali, tutti abbiamo diritto di vivere i nostri sogni”. E come dargli torto, la vita in fondo è un sogno, l’ha detto pure Shakespeare.
Ha continuato Michelle Obama il 6 gennaio, in occasione della premiazione School Conselor dell’anno. I suoi discorsi sono talmente belli che una sprovveduta aspirante first lady li ha anche copiati, e infatti ancora una volta ha tenuto uno speech meraviglioso, dedicato ai ragazzi, in cui li invitava a credere in loro stessi, nei loro sogni, nei diritti e nella libertà, nel potere dello studio come opportunità per una vita migliore e nel valore della diversità etnica e religiosa. Un discorso che non può non commuovere e non farti sentire per un attimo un cittadino del sogno americano, anche se abiti a Cosenza e non hai un lavoro. L’ha chiuso dicendo: “Io starò con voi, tifando per voi e lavorando per tutto il resto della mia vita”. Non avrebbe potuto dire altro. Chiosa impeccabile.
E infine è arrivato lui, Donald Trump, il nuovo ‘capo’ degli Stati Uniti, che non essendo in guerra, e soprattutto non essendo bipolare non ha potuto dire anche lui: “Combatteremo sulle spiagge, combatteremo sui luoghi di sbarco, nei campi e nelle strade e nelle montagne”, ma si è ispirato a Bane, il nemico di Batman e dopo aver promesso: “Stiamo trasferendo il potere da Washington e lo restituiamo a voi, il popolo” (cfr Tom Hardy ne Il Cavaliere Oscuro, il ritorno), ha minacciato: “Affronteremo sfide, ci confronteremo, ma porteremo a casa il risultato”, che dovrebbe essere il ‘Make America Great Again’, stampato su cartelloni, spille e bandierine. Insomma, non si combatte contro nessuno, non si combatte per un ideale, non si combatte a fianco di qualcuno, ma si combatte. Per un claim pubblicitario che intercetta una paura vaga e diffusa.
“Sono convinto che se c’è qualcosa da temere è la paura stessa, il terrore sconosciuto, immotivato e ingiustificato che paralizza. Dobbiamo sforzarci di trasformare una ritirata in un’avanzata”, disse il 4 marzo del 1933, il giorno del suo discorso inaugurale per il terzo mandato, l’ipertimico e paralitico Franklin Delano Roosevelt e pochi anni dopo l’America entrò in guerra. E forse parlava di sé, e probabilmente nessuno si commosse. E la frase non passò alla storia e non finì su un cappellino in carta a stelle strisce; troppo lunga, non ‘buca’ una frase così.
Nell’opera che nel 1953 gli valse il premio Nobel per la Letteratura Winston Churchill ha scritto: “I governi e i popoli non sempre prendono decisioni razionali. Talvolta essi prendono decisioni pazzesche, oppure alcuni popoli impongono a tutti gli altri di seguirli nella loro follia”. Ora, l’unica cosa che possiamo augurarci in questo momento storico è capitare nello spettro della follia migliore.
Stay hungry, stay foolish, stay bipolar!
Anna di Cagno