Da quando è arrivata su Netflix, Sanpa ha spaccato: da una parte i sostenitori, dall’altra i critici, nel mezzo gli imperscrutabili, quelli che non si capisce non tanto da che parte stanno -cosa poco interessante- ma cosa dicono nei loro infiniti post sui social.
Ma questo è il blog di Molly Brown, non ci interessano gli schieramenti, e ci occupiamo di icone pop: donne e uomini che hanno segnato un’epoca.
E Vincenzo Muccioli è stata un’icona degli Anni Ottanta, di quegli “anni bucati e distratti” per dirla con Raf.
Nato a Rimini il 6 gennaio 1934, figlio di un assicuratore, sposa la figlia di albergatori della Riviera che gli affidano un podere a Coriano, contrada San Patrignano, dove poter coltivare la sua passione per l’agricoltura e l’allevamento di razze canine pregiate.
Una dozzina d’anni, una figlia di amici con problemi di tossicodipendenza si rifugia da lui e di lì a poco nasce una cooperativa. Seguono finanziatori importanti (Gianmarco e Milly Moratti) e nasce la comunità terapeutica più grande d’Europa.
E nel 1985 arriva il primo processo, passato alla storia come il “processo delle catene”.
Perché Muccioli, all’occorrenza, li incatenava i suoi ospiti drogati. E non se ne vergognava, lo diceva e ne faceva un punto di forza del suo schema terapeutico, che rifiutava qualsiasi ausilio (metadone, ma anche Tavor, Roipnol e ogni antidolorifico) e si basava sull’etica del lavoro e sulla metafisica del Padre.
Il buon padre di famiglia che, quando necessario, molla uno sganassone al figlio discolo, e lo punisce.
Ma i figli si sa, emulano i padri, quando non riescono a liberarsene.
Ed ecco un secondo processo, nel 1994, più grave, perché nel settore macelleria Roberto Maranzano viene picchiato a morte da Alfio Russo e Vincenzo Muccioli rinviato a giudizio per omicidio colposo (verrà assolto).
La serie Netlix ricostruisce in dettaglio le vicende, perciò ci fermiamo qui.
È un ottimo documentario, e un potente rewind su quegli anni.
Chi li ha vissuti, li ricorda.
L’eroina era una presenza quotidiana nelle strade delle città, nelle scuole, nei luoghi di aggregazione giovanile. E nelle famiglie, distrutte da una nemica sconosciuta alla generazione dei padri, che avessero la p minuscola o maiuscola.
Una pandemia è d’obbligo dire oggi, un virus che non faceva distinzioni tra femmine, maschi, ricchi, poveri, cittadini o provinciali.
Alzi la mano chi era ragazzo negli Anni Ottanta e non aveva un amico/a tossico.
E poi c’erano loro, i ragazzacci del rock, che muovendosi con anticipo ne avevano sdoganato la “cultura” da un decennio prima. Heroin, Brown Sugar, Cocaine, Purple Haze, Comfortably Numb… Persino una canzone vincitrice del trentunesimo festival di Sanremo (Per Elisa, ndr) parlava della “roba”.
Era tra noi. In molti casi, in noi.
Ed è giusto ricordare cos’è stato, perché non è mica sparita.
Ed è giusto ricordare Vincenzo Muccioli, un uomo sicuramente fuori dall’ordinario, e per stazza e per carisma (si fregiava anche del titolo di parapsicologo).
Ma è anche necessario domandarsi:
Qual è il limite di un Padre?
“Tu eri avvolto per me dall’enigma di tutti i tiranni, il cui diritto è fondato sulla loro persona e non sul pensiero”, scrive nella sua Lettera al padre Franz Kafka.
Diritto & pensiero. Cose preziose.
PS Franz Kafka è il “padrino spirituale” di Lettere al padre (Morellini Editore) antologia a cura di Anna di Cagno