Theodor John Kaczynski è stato il terrorista più famoso del ventesimo secolo, l’uomo che ha tenuto in scacco l’America e l’FBI per oltre sedici anni, inviando pacchi bomba secondo un progetto folle ma ben preciso nella sua mente geniale. A lui sono dedicati una serie tv e diversi documentari in programma in questo periodo.
Reduci -e ancora non del tutto- da una quarantena imprevista e inquietante, ci siamo ritrovati tutti rinchiusi tra le nostre quattro mura.
Molti di noi si sono addirittura accorti di avere una casa, un luogo cioè che volente o nolente ci rappresenta, racconta di noi, delle nostre abitudini, bisogni, stranezze e mancanze.
C’è chi invece, prima del Covid, nella sua “casa” si è richiuso per ventisette anni.
Per portare avanti una battaglia diversa da quella necessaria contro un virus ma che, nella sua strampalata testa, era comunque un virus: la società industriale. E suoi derivati: tecnologia, inquinamento, progresso e affini.
Stiamo parlando di Theodor John Kaczynski, al secolo Unabomber, il terrorista più famoso del ventesimo secolo,
l’uomo che da un capanno di Lincoln, Montana, ha terrorizzato per sedici anni gli Stati Uniti d’America, più di Bin Laden. Perché quando il pericolo è dentro di te, è figlio della tua cultura e della tua storia, allora sì che scopri il senso della parola terrore.
E quale cultura! La migliore, la più alta, la più esclusiva, quella per la quale le famiglie americane s’indebitano sin dalla nascita di un figlio.
Perché Unabomber è stato il più giovane studente di Harvard.
Ammesso a soli sedici anni, grazie a un quoziente intellettivo di 170 punti, è stato uno dei più promettenti studiosi di Teoria geometrica delle funzioni, branca elitaria dell’Analisi Complessa, e a soli ventiquattro anni assistant professor di Matematica a Berkeley.
Un astro nascente nella comunità scientifica, autore di una tesi di Ph.D all’università del Michigan comprensibile, a detta della commissione, solo a una dozzina di cervelloni americani.
Un motivo d’orgoglio, per una famiglia di immigrati polacchi.
Ma nel 1969 a ventisei anni lascia tutto, si ritira “into the wild” e diventa Unabomber.
L’acronimo sta per University and Airlines Bomber, i suoi obiettivi preferiti sin dal primo dei sedici pacchi bomba inviati.
Cosa successe?
A scatenare la sua rabbia e il suo progetto “rivoluzionario” fu l’essere selezionato, durante gli anni di Harvard, dal professor Henry Murray. Lo psicologo, a capo del progetto MKULTRA, uno studio sponsorizzato dalla CIA, faceva esperimenti di reazione allo stress.
In breve: lavaggi del cervello. E se riesci a “lavarne” uno dal 170 punti di IQ…
Ricordate Alex DeLarge e Arancia Meccanica? Gli elettrodi alla testa e l’esposizione a immagini violente e traumatiche? Beh, quello.
Alla sua incredibile storia è dedicata una serie tv in onda attualmente su Netflix, Manhunt: Unabomber, e un documentario, Unabomber in his own words, ricco di filmati e interviste rilasciate da Ted Kaczynski in prima persona (è ancora vivo e sta scontando l’ergastolo in Colorado).
Una vita e una vicenda incredibili, quelli di Unabomber.
La sua resta a tutt’oggi l’indagine più costosa mai realizzata dalla FBI, e si presta a infinite chiavi di lettura: dalla maledizione del genio al lato oscuro della CIA.
Ma a colpire l’immaginazione in questo momento è quella casa.
O meglio, quella cabin, come si dice in inglese, un buco di pochi metri quadri senza acqua né corrente elettrica che oggi è esposta al Newseum di Washington.
Perché esporla nella capitale?
Per ricordare come il Bene (il Federal Bureau Investigation) ha vinto contro il Male?
Per demotivare i tanti emuli di Unabomber e indebolirli, ricordando loro come la Società Industriale, alla fine, vinca sempre?
Per non dimenticare la paura e il dolore che dal 1978 al 1995 hanno attraversato il Paese più ricco, forte e libero del mondo?
Forse.
Mollybrown.it si occupa di icone pop, di Inaffondabili che hanno segnato un’epoca e le nostre vite.
E per quanto negli Anni Ottanta Unabomber sia stata una vera icona pop con tanto di magliette (che per altro ritraevano un viso diverso, frutto di un identikit andato male) e gadget vari, non riesce a trovare nella vita e nelle “opere” di Ted Kaczynski nulla che si presti a essere ricordato. Ma la sua cabin, sì.
Questa casa è l’icona del pericolo che si corre, quando ci si sottrae dal mondo.
Si chiama Sindrome della Capanna (Cabin Fever) e secondo la Società Italiana di Psichiatria in Italia riguarda già un milione di persone.