MOLLY BROWN
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Immaginati

ROCKETMAN la solitudine di un numero primo

Uno che canta al funerale di Lady D non è certo un sovversivo rivoluzionario, eppure Sir Elton John è un’icona dell’eccesso. Con l’età si è dato una calmata, ma quando era un giovanotto ne ha fatte (e si è fatto) di ogni.
Il classico timidone che poi diventa fin troppo sfacciato e ne combina di tutti i colori, tanto da finire in una clinica di riabilitazione per disintossicarsi da troppo alcol, droga, sesso, lusso.
Insomma, se Dante l’avesse conosciuto, gli avrebbe appioppato il soggiorno in un bel po’ di gironi infernali, altro che clinica di riabilitazione.

Elton John ha fatto soldi a palate, nel modo che può accadere solo in una cultura intrisa di puritanesimo:

sei un essere eletto dal Signore, lo dimostrerai nel tuo passaggio sulla Terra e sarai premiato durante la tua esistenza con tanta abbondanza che tu avrai prodotto a beneficio tuo e di chi orbita nella tua esistenza.

E sì perché sembra un contraddizione in termini, ma personaggi come Elton John sono la quintessenza  della cultura protestante, quella che premia chi sa fare qualcosa e sa farlo molto bene.

Elton, che all’anagrafe si chiama Reginald Kenneth Dwight,  suona il pianoforte da virtuoso, mica da improvvisato.

Ha meritato una borsa di studio a soli 11 anni e ha studiato alla Royal Academy of Music di Londra.
Poi, il Signore Onnipotente lo ha messo sulla strada di Bernie Taupin che scrive testi bellissimi.
Due predestinati al successo.

Il successo di Elton John è stato planetario, ha attraversato generazioni e lo ha eternato mentre è ancora in vita.

Ma perché  un cantante come Claudio Baglioni, che è stato il fenomeno pop più lungo e di successo della musica italiana, non attraversa i più svariati palati musicali? Sì, perché, ammettiamolo, anche se conosciamo a memoria tutte le sue canzoni,  molti di noi si vergognano anche solo a citare Tu come stai?

Cosa che invece non accade con Sir Elton. Perché tutti, anche i più raffinati cultori di free-jazz non possono non ammettere che è un grandissimo. E non possono non amarlo.

Insomma, che cosa ha Elton John che Claudio Baglioni non ha?

Semplice, la lingua inglese. Non per la veicolarità di un idioma che ormai tutti utilizzano massacrandola per comunicare con altri esseri umani, che a loro volta la utilizzano e la massacrano ai quattro angoli del pianeta, ma per la sua indicibile poeticità intrisa di ironia e di disperazione.

La qualità del piano di Elton John è innegabile e i testi di Bernie Taupin sono deliziosi.

Le sue canzoni non hanno spessore dei riferimenti culturali dei Genesis ma – giusto per dirne una – Taupin ha dichiarato che l’ispirazione per Rocketman gli è venuta agli inizi degli anni Settanta, leggendo il racconto The Rocket Man di Ray Bradbury che si era immaginato un futuro in cui andare in orbita nello spazio sarebbe diventato un lavoro di routine, come quello dei piloti delle linee aeree.

Rocket man, burning out his fuse up here alone
(Un uomo razzo che brucia il suo fusibile nel vuoto da solo)

Dare voce a un astronauta alienato dalla routine del proprio lavoro, che si sente solo e diverso dall’idea che gli altri si sono fatti di lui non è un’operazione culturale da poco. Oltre al riferimento alla cronaca (erano gli anni delle missioni spaziali) e alla letteratura, permane l’ironia dei doppi sensi su omosessualità e droga.
Ma non solo.

Rocketman è un testo Inaffondabile perché ha dentro la grandezza di chi ammette di essere disperato per la propria solitudine.

La disperazione può essere considerata la cifra della poesia inglese.
Come l’ironia, sua necessaria compagna, lato B dello stesso disco.
Almeno fino al Secondo Dopoguerra, la cultura inglese ha prediletto l’understatment, la riservatezza a tutti i costi e la deferenza per l’establishment.

Ma la sua lingua, quando è esplosa nell’espressione poetica, ha sempre sovvertito le regole.

E lasciato andare a briglia sciolta l’innato bisogno degli esseri umani, compressi da un’educazione rigida e spesso anaffettiva, di giocare, ridere, prendere in giro, scherzare, amare e abbandonarsi alla voluttà.

Il tutto, nel caso di Sir Elton John, decuplicato dalla potenza di un virtuoso del pianoforte.

Povero Claudio, il confronto è davvero impari.

 

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