Chiunque abbia almeno diciott’anni ha un suo personale ricordo di quando ha appreso la notizia, ed è molto probabile che il 7 luglio fosse tra i tre miliardi di persone che assistettero all’evento di streaming on-line più visto della storia: il suo funerale celebrato nello Staples Center di Los Angeles.
Nessuno però poté dirsi sorpreso. Perché era già un miracolo che fosse arrivato a quarantacinque anni, di cui quaranta di carriera strabiliante e incessante, circa trenta di una vitiligine a dir poco emblematica per un ragazzino nero di Gary, altrettanti di un lupus eritematoso sistemico con tutte le sue complicazioni, un tot d’interventi chirurgici demolitivi e un abuso di psicofarmaci da manuale della star americana a cui hanno rubato l’infanzia.
Tutti tristi il 25 giugno del 2009 eppure nessuno incredulo.
Era una morte annunciata, qualcosa che s’intravedeva già quando si esibiva nel suo moonwalk, un essere filiforme che sembrava sempre sul punto di spezzarsi; quando con la voce di un bambino intonava Man in the mirror; e anche quando era ancora un bambino con le guanciotte tira-baci e cantava ABC… One, two, three...
Impossibile pensarlo vecchio, così come impossibile immaginarlo maschio, femmina… insomma, sessualmente attivo, nonostante gli scandali.
Solo lui poteva stringersi le palle con una mano e non sembrare un buzzurro da stadio, gorgheggiare peggio di Anita Ward in Ring my bell e non risultare grottesco, truccarsi e non sembrare un travestito.
Né uomo né donna, né etero né gay…
Un angelo di una nuova iconografia, quella inventata dalla cultura Pop. Kitsch e sublime.
E Jeff Koons l’aveva capito. Il furbo broker che ha applicato nell’arte le tecniche della finanza, nel 1988 gli ha dedicato una scultura, Michael Jackson and Bubbles, senza che lui mai posasse nel suo studio, solo ispirandosi a una fotografia. The King of Pop è vestito color oro, come lo scimpanzé che adottò nel 1985, è seduto per terra su un letto di fiori e cinge la bestiolina con il braccio destro; la mano bianchissima, l’incarnato bianchissimo, una lunga striscia di eyeliner nera sugli occhi, molto Liz Taylor, le labbra rosse e dischiuse.
Insieme sono un’unica entità, una cosa sola. Eppure i loro sguardi non s’incrociano e a ben guardare non sono neanche rivolti nella stessa direzione: quello di Bubbles è attraversato da una leggera inquietudine, quello di Michael è seduttivo, ma rassegnato; sembra dire: “lo so cosa vi aspettate da me, lo avrete”.
Bubbles metteva tristezza: una scimmia vestita da pop star che mangiava a tavola, viveva in tournée e posava per servizi fotografici con il suo padrone, che a sua volta era stato un bambino trattato come una scimmia da circo da un padre terribile e da un’industria spietata.
Anche Michael metteva un po’ tristezza, perché era come se tutta quell’energia, quella gioia di vivere e quel ritmo irresistibile che solo lui sapeva comunicare non gli appartenesse. Come se fosse altro da lui e lui fosse sono un mezzo per far arrivare qualcosa a ognuno di noi.
Lo stesso sottofondo di malinconia che s’intercetta sempre nel volto della Vergine Maria, deve aver pensato Jeff Koons. Che ha detto di essersi ispirato alla Pietà di Michelangelo, per la struttura triangolare della scultura, ma che sicuramente ha trovato nella successiva Madonna di Bruges l’icona di quello che lui ha declinato in salsa Pop.
Anche lei come Jacko non guarda la sua creatura (fu questa la novità), e anche lei lo trattiene a sé con una mano; ma mentre il Bambino sembra quasi scivolarle via lungo la veste e la tristezza di Maria è quella di una madre che sa a cos’è destinato suo figlio, Bubbles resta incastrato le gambe del suo padre\padrone, perché Michael sa che non c’è destino per lui, solo show-business. Ma poi arriva Jeff Koons…
Anna Di Cagno