MOLLY BROWN
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Intervistati

MAX PAPESCHI Una storia Pop

Andy Warhol se ne sarebbe innamorato. Della sua arte sicuramente, ma anche della sua storia, che poi è la sua arte e viceversa. Perché nella vita e nell’arte di Max Papeschi tutto si mescola, secondo l’unico dictat della filosofia Pop.
E la sua è infatti la storia di una fama mondiale raggiunta in tempi rapidissimi partendo da un equivoco virtuale, e quindi immateriale e quindi planetario. E il circolo si chiude. Da Milano a Tokyo, dalla rete alle gallerie di Los Angeles, dalla scuola di teatro Paolo Grassi alle svastiche.
Non li cercava, lui, i famosi quindici minuti di celebrità di cui parlava papà Andy, cercava un produttore e invece quei quindici minuti sono diventati cento, mille e non sono ancora terminati e lo accompagnano in giro per il mondo, in mostre collettive e personali, apprezzatissimo da critici, collezionisti, appassionati d’arte, “consumatori” di cultura.  E tutto è nato da un equivoco e di equivoci si è nutrito, perché poi alla fine è quello il destino dell’arte: essere, come diceva Picasso, «una menzogna che ci consente di riconoscere la verità».

In breve: Max Papeschi studia alla Paolo Grassi di Milano, lavora nell’ambiente teatrale\televisivo e nel 2008 realizza il suo primo film. Ma il produttore non lo fa uscire. E lui non sa che fare. E fa l’unica cosa che gli viene in mente è fare quello che sa fare, e cioè un copione per uno spettacolo: Ronald The Butcher Boy (storia di una strage in un Mc Donald compiuta da uno dei tanti Ronald al soldo delle feste di insopportabili bambini ricchi) e realizza un paio di fotomontaggi, delle proto-locandine che mette su MySpace. E qui…

Equivoco n.1. Ronald McDonald stragista.
Grace Zanotto, gallerista milanese, fa un giro su MySpace, nota un’insolita locandina di Mc Donald’s in cui il celebre clown amico dei bambini imbraccia un fucile. Le piace e contatta l’intestatario del profilo. Vuole parlare con l’artista che ha realizzato la locandina, cioè con lui, che però ancora non lo sa di essere un artista. C’impiegano un po’ per capirsi ma alla fine della telefonata lui è diventato un artista. E partecipa alla sua prima mostra collettiva. E vende tutto. E poco dopo tiene una personale. E poi altre.

Eri consapevole di essere al centro di un “errore”?
No, mentre avveniva no. La mia identità artistica si è costruita da sola, nel senso che non soltanto non avevo mai pensato di voler fare l’artista, ma non era proprio nelle mie corde l’idea. Tutto è successo con una velocità tale per cui io sono passato dal dire: “ok faccio questa mostra perché mi diverto” a cominciare a vedere dei risultati tangibili molto più visibili di quelli che avevo avuto nel mondo dello spettacolo.

Equivoco n.2. Topolino nazista invade la Polonia.
Estate 2010 è in Sicilia per l’inaugurazione del Farm Cultural Park, riceve una telefonata da un giornalista di un quotidiano e poi da un altro e un altro ancora… E il Corriere della Sera titola:
Il Topolino nazi che agita la Polonia

Cos’era successo?
Dovevo partecipare a una collettiva a Poznan, in Polonia e il gallerista Roman Nowak mi aveva chiesto di usare una mia immagine che, come opera d’arte era stata stampata in un formato da 50 centimetri, e come immagine promozionale della mostra io pensavo leggermente più grande, per una locandina. E invece lui l’aveva fatta realizzare di 8 metri per 8 e l’aveva piantata sulla facciata di un palazzo nel centro di Poznan, per pura casualità vicino a un luogo sacro ebraico. È successo un casino: la comunità ha denunciato un’aggressione ai suoi danni, i nazisti polacchi si sono incazzati per “uso irrispettoso” del loro amato simbolo e hanno minacciato ritorsioni contro la galleria, la mostra si è svolta sotto scorta della polizia.

E tu sei diventato nazista…
Per pochi secondi, grazie al cielo. E per pochi osservatori privi di strumenti.

A freddo le tue opere però “disturbano”…
Sì, ma dipende dal contesto in cui le vedi. Se sono esposte in una galleria, chi le osserva si fa automaticamente delle domande e cerca di leggere il messaggio. Diverso è sul web, in cui entra un pubblico eterogeneo, spesso privo dei filtri culturali che ogni opera d’arte richiede a chi la guarda. Nel caso di Poznan è stato il “gigantismo” di piantarla sulla facciata di un palazzo in una città che col nazismo ha una vecchia e terribile storia a scatenare il putiferio. L’effetto varia a seconda dell’uso: se la vedi su un palazzo, dici: “cazzo una svastica così grande come non si vedeva dal ’45 in Polonia”, se la vedi appesa a un muro in un interno la guardi e pensi: c’è qualcosa da capire.

Leggiamo insieme l’opera dello scandalo?
Topolino è l’immagine della purezza, dell’infanzia; il corpo è quello di una donna nuda. Sono i due meccanismi che la pubblicità usa più spesso. Normalmente sono scissi, io li ho assemblati per creare un manifesto pubblicitario che vendesse il Partito Nazional Socialista come un ibrido tra sesso e infanzia. Le tre cose messe insieme lo rendevano un ossimoro visivo.

 

E dopo la Polonia cos’è successo?
Dieci anni nel mondo dello spettacolo senza ottenere dei grandi risultati e poi con quattro immagini riesco a far parlare tutto il mondo! Forse allora – mi sono detto – le cose che voglio esprimere con i film, il teatro o la televisione le posso dire anche in questo modo. In quel momento è iniziato il lavoro.

È quindi solo un gioco, una provocazione?
No, io cerco di farti riflettere sul perché vieni attirato da un cartellone pubblicitario. E ti faccio vedere che ti sto vendendo il nazismo, con un’immagine piacevole. Tutte le mie immagini sono molto curate esteticamente, io sto molto attento a fare delle cose colorate, divertenti, carine, no? E quindi ti rendi conto che tutto questo “carino”, come nel caso dei profumi, può venderti il fascismo, il nazismo, il comunismo, qualsiasi cosa. Dietro a una bella immagine pubblicitaria puoi vendere qualsiasi cosa, qualsiasi valore. Anche una guerra.

E tu hai venduto tua madre!
Quello è stato un gioco sui media. Nel senso che l’opera d’arte non era vendere la mamma, l’opera d’arte era far parlare i giornali. Tanto che poi non l’abbiamo neanche fatta l’asta, perché non era quello il punto. A me quello che interessava era: dopo la Polonia avevo avuto la prova tangibile che se i giornali hanno un articolo che attira click, lo sparano anche se sanno che la notizia è una cazzata, mai click servono, e l’articolo “artista vende sua mamma all’asta” è un articolo cliccabile.

E la mamma come l’ha presa?
S’è divertita.

Le fake news sono quindi un’opera d’arte.
Sì, e in un modo molto meschino. Insomma, io sono venuto su negli anni Settanta quando c’era quantomeno l’utopia del Grande Fratello, il mito della congiura, i potenti dei gruppi Bilderberg che lavorano per instupidire. Invece poi la sensazione è che sia tutto molto più volgare, molto meno pensato. Molto più meschino. Quindi se io ti dico: vendo mia madre all’asta, tutti i giornali seguono questa cosa sapendo benissimo che è una cazzata. Lo stesso spirito attraversa tutto il mio lavoro sulla Corea del Nord, insomma è la stessa cosa. Cioè lo zio di Kim Jong-un mangiato dai cani è una cazzata. La guerra tra Trump e Kim è una cazzata, è ovvio che è una cazzata, cioè non è che i giornalisti sono scemi. Però intanto tutti i giorni hai la notizia. Trump dice: «io ho il bottone più grosso del tuo», l’altro che risponde: «è un vecchio rimbambito». E vanno avanti così. Continuano a dare notizie.

  

Finita quindi la tua “storia d’amore” con Kim Jong-un?
È cominciata due anni e mezzo fa in collaborazione con Amnesty, perché volevamo parlare di una cosa seria e grave. Tramite la mia cifra stilistica, che è quella della parodia, a me interessava parlare dei campi di concentramento nordcoreani che continuano a esistere e sono poco notiziabili. E infatti i giornali non hanno mai dato spazio a questo aspetto perché, triste dire, ma non frega alla gente. Fa più notizia l’artista che mette il faccione di Kim, ti ricordi la campagna, i manifesti. La prima l’idea era di attirare gli occhi sulla Corea del Nord che nessuno conosceva, e poi parlare dei campi di concentramento. Nel frattempo è esplosa la bomba mediatica tra Trump e Kim Jong-un e la Corea del Nord è diventata magicamente un topic. E l’attenzione è finita su altro. Per il momento il progetto Corea del Nord va in freezer e se ci sarà la possibilità di tornare sull’argomento, magari parlando dei diritti umani, lo ritireremo fuori.

Adesso stai lavorando a qualche nuovo progetto?
Sì, ma l’unica cosa che ti posso dire è che sarà sull’intelligenza artificiale.

Come avviene il processo creativo in te?
Io leggo tantissimo. E guardo tantissimi documentari.

Cosa leggi e cosa guardi?
Giornali e servizi televisivi e film. Guardo tutti i TED che vengono fatti sugli argomenti che mi interessano. Normalmente la mia fase di documentazione è quella più lunga. Si tratta di decidere, m’interessa una cosa e allora leggo venti libri sull’argomento. Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale sono stato due mesi in California e sono andato a parlare con un po’ di gente lì nella Silicon Valley, perché ero interessato anche al discorso della realtà aumentata e mi sono reso conto – perché lì è naturalmente il posto dal punto di vista tecnologico più avanti di tutto il mondo – che la nuova svolta epocale arriverà proprio da questo e quindi sto lavorando per capire, e raccontare.

In un’intervista hai detto: «sì ok, la mia è arte contemporanea, sono nelle gallerie, ho un valore di mercato, però soprattutto è la visione che ho io della vita». Qual è la tua visione della vita?
Quella che vedi nelle mie opere. Racconto le sensazioni che ho, ma tento sempre di mantenere un sguardo ironico.

È cambiata in questi ultimi dieci anni?
Non perché faccio l’artista o perché ho avuto successo. È cambiata perché è cambiato il mondo.

Infine, la domanda d’obbligo qui su mollybrown.it. Chi è il tuo inaffondabile?
Il dittatore. Di ieri, di oggi, di qualsiasi ideologia. Ne sono affascinato perché incarna il concetto di Male. È lui, il Male, il più grande inaffondabile della storia dell’umanità: dal maschio alfa dominante in natura al leader mediatico è sempre in attività nell’animo umano. Siamo scimmie cattive dotate di una natura sociale. Questa lotta è costante in noi e nella storia, e cambia nella forma, ma mai nella sostanza.

E se invece io ti chiedessi un nome e cognome?
Allora Stanley Kubrick e tutto il suo cinema. Nei suoi film c’è tutto quello su cui io lavoro: la crisi della razionalità, il suo fallimento totale. Dal Dottor Stranamore a Shining a Lolita ad Arancia Meccanica, nel Settecento o nel 2001 il tema è sempre quello. Per questo i suoi film non invecchiano mai. Sono universali. E a me questa cosa interessa molto. Se vedi, è vero che cerco i potenti, però cerco di non fare vignette sul presente, cerco cosa c’è dietro, indipendentemente dal personaggio. E cioè la natura umana. Quello cioè che è interessante adesso, ma sarà interessante anche tra cinquant’anni. Almeno si spera.

 

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