Ci caschiamo sempre, tutti. Parliamo di popolazioni e di culture razziste e di altre, che di questo razzismo sono le vittime. La maniera con la quale percepiamo gli eventi è dettata da una narrazione diventata conformista e mainstream.
Da una parte i buoni, e dall’altra i cattivi.
Gli evoluti e i primitivi, i bianchi e i neri.
I “puri” e gli ibridi.
Attenzione: le posizioni, di fronte al razzismo non sono univoche, al contrario: i convinti assertori della supremazia bianca, occidentale, europea sono, nel mondo, la stragrande maggioranza. Ne fanno parte a pieno titolo quelli che “io non sono razzista ma…”, e a questi si oppongono tutti coloro che si credono antirazzisti. E gli uni e gli altri si trovano ovunque.
Non sono le culture ad essere razziste; sono gli uomini, con i loro comportamenti, convinzioni, storie, contingenze, passioni, identità complesse ad agire e quindi a comportarsi.
E allora esisteranno anche neri razzisti, come del resto tanti bianchi sono (o si credono) antirazzisti.
L’episodio della rissa da bulletti di periferia tra due giocatori di Milan e Inter, Zlatan Ibrahimovic e Romelu Lukaku, ha ovviamente scatenato polemiche su ogni media e soprattutto sui social, che sono lo specchio, le tombe egizie (gli archeologici del futuro troveranno tutto là, per sapere di come eravamo) della società contemporanea.
Si è indagato sui termini, sul background dei due, sul fattore violenza e aggressività nello sport, sui tempi che viviamo – “la maleducazione non è più quella di una volta” – persino su Sanremo: Ibra merita o no di andarci? Insomma dei massimi sistemi. Eppure, gli uomini “appartengono” e al contempo si ribellano alle culture di riferimento; agiscono condizionati dalla cultura ma a loro volta la creano e la innovano con i loro atteggiamenti.
Dare per scontato che Ibra sia il carnefice e Lukaku la vittima corrisponde a un cliché poco costruttivo.
Chiariamo: Ibra voleva essere offensivo, ed è stato razzista nel suo modo di esprimere il proprio pensiero usando quello che, nel gergo mediato dal basket NBA, si chiama trash talking. Tuttavia, nella sua frase “torna ai tuoi riti vodu di merda, piccolo asino (o scimmia, donkey fa rima con monkey)” c’è una parte palesemente razzista, riferita all’insulto animale, un’altra parte, sulla quale vale la pena soffermarsi.
(Ndr il mio amico e maestro, il sociologo Reginaldo mi ricorda sempre che “scimmia non dovrebbe essere un insulto per noi illuminati che non siamo creazionisti e crediamo in Darwin”).
Partecipare al vodu non è né un reato, non è qualcosa di vergognoso e neppure primitivo come molti pensano.
I politeismi come il vodu praticato in Africa occidentale – in Benin è la religione di stato, con l’80% degli adepti – o il candomblé brasiliano, la santeria cubana, lo stesso woodoo haitiano e della Lousiana, questi ultimi culti sincretizzzati con la religione cattolica, sono aperti, pacifici, plastici, moderni.
Assecondano i desideri, le passioni, le tendenze umane; agiscono a fin di bene, e soltanto l’appiattimento su una demonizzazione cinematografica e letteraria ci fa credere il contrario. Grandi intellettuali, praticanti o meno – dal premio Nobel Yole Soynka a Jorge Amado, da Caetano Veloso al filologo Maurizio Bettini – ne hanno profuso gli elogi.
La filosofia di questi culti è la stessa che ha permeato la classicità greco-romana di cui andiamo tanto fieri.
Voduns, orixas e inkissi rappresentano le caratteristiche umane, sono le nostre proiezioni – i miti li abbiamo inventati noi – possono essere assimilati non soltanto agli dei del pantheon presieduto da Giove o Juppiter e che vede protagonisti Saturno, Apollo, Venere, Dioniso, Marte, ma addirittura, nei sincretismi citati, ai santi del cattolicesimo come San Giorgio, Santa Barbara, o la Madonna nelle sue varie rappresentazioni.
Tornando a Lukaku, cosa lo ha fatto così infuriare?
È lecito offendersi per quell’altra parte della frase; ma riguardo alla religione – che ci creda o meno – la sua reazione lo ha fatto, almeno per un momento, assimilare a un qualunque bianco etnocentrico che persino in questo frangente si è profuso in scandalizzate litanie contro il razzismo di Ibra.
Tra l’altro, qua è là tacciato di essere “uno zingaro”, ovvero uno che il razzismo avrebbe dovuto provarlo sulla propria pelle. (Qui il discorso si complica e il nodo diventa inestricabile, il corto circuito intellettuale irrisolvibile, con il tifo calcistico che ovviamente polarizza sentimenti e argomentazioni, come sempre avviene in Italia).
Sia chiara una cosa: nessuno è razzista per sempre.
Lefrasi e gli atteggiamenti razzisti se non perdonabili, vanno sempre contestualizzate, con pene adeguate.
In altri termini, un razzista può pronunciare talvolta frasi antirazziste, e un antirazzista convinto può esprimere pensieri razzisti. D’altronde, è altrettanto censurabile l’atteggiamento con il quale tanti – molto spesso i tifosi di calcio – giustificano atteggiamenti palesemente razzisti, cavandosela con l’espressione: “È un modo come un altro per offendere l’avversario, come se fosse pelato o basso, e poi anche noi abbiamo ‘negri’ in squadra”.
Scrivere commossi un pezzo della sofferta autobiografia di Lukaku e chiosare con un “altro che vodu” è una frase intrisa di (inconsapevole?) razzismo
Rinnegare compatrioti, corregionali, amici di comunità (la madre?) in nome di un’evoluta forma di civiltà – evidentemente quella superiore, la nostra, occidentale, illuminista cattolica – è un errore storico, logico, antropologico che persino gli afrodiscendenti commettono, e in grande misura.
È come se, per uscire da quei ghetti, per decolonizzare la propria mente, il nero avesse bisogno di dimenticare origini, vissuto e di sbiancarsi la pelle. L’idea assimilazionista riduce i neri a livello di bambini che devono essere istruiti sul come comportarsi, per dimenticare o comunque annacquare la propria identità. È questo che voleva comunicarci Lukaku, l’idea di essersi allontanato per sempre da un passato cupo e superstizioso riconducibile al vodu? A quel vodu, appunto, fatto di spilloni, zombi, divinità maligne e violente? Non la conosce questa religione, il gigante buono Romelu, delizia di Antonio Conte e di tutti gli interisti e croce per ogni avversario?
Perché mai appartenere al vodu, strutturato con divinità (Heviosso, Legba, Gu), sacerdoti (l’hungan o la mambo), rituali, fedeli, dovrebbe costituire una patologia di cui vergognarsi?
Il contrario di razzista non è “non razzista”, ma antirazzista, scrive Ibram X. Kendi; e dove sta la differenza? Nel non avvallare una gerarchia razziale, ma una reale uguaglianza. Lo stesso vale per la religione: il termine tolleranza, a pensarci bene, è subdolo, perché rimanda a un atteggiamento di benevolenza, di “concessione” da parte di chi si sente, comunque, superiore. D’altra parte, occorre prestare attenzione a non enfatizzare la portata di un’identità forte e immobile, pura e indissolubile: le identità cambiano e si trasformano, proiettano e introitano impulsi e valori.
Meticciarsi, ibridarsi, sincretizzarsi non significa annullarsi, ma al contrario, valorizzare le proprie identità, poiché queste sopravvivono non guerreggiando ma dialogando.
Ma vergognarsi di quel che si è stati, anche se si desidera cambiare, conformarsi e modernizzarsi è altra cosa, e disdicevole, se così si può dire.
E allora un buon test per chi si sente un buon cristiano cattolico sarebbe questo: se qualcuno volesse offenderci dicendo: “Torna alle tue messe, al tuo Gesù Bambino, ai tuoi preti”, che faremmo noi, ci infurieremmo?