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Inaffondabili

GIUSEPPE VERDI la sua vita spericolata


Si chiamano Violetta, Gilda, Leonora, Aida, Desdemona, Amelia, Elisabetta. Sono le eroine più famose delle opere di Giuseppe Verdi, dalla Traviata all’Aida passando per il Rigoletto, il Trovatore o La Forza del Destino. Eroine stereotipate in un primo tempo, destinate a diventare però donne di carne e di sangue, di testa e di cuore. Donne che vivono in palcoscenico, ma che assomigliano sempre di più a quelle che s’incontrano nelle case, nelle strade, nei teatri d’Italia.

 

E se le “donne di carta” di Verdi tendono a essere sempre più concrete e reali, anche le sue donne “di carne”, quelle che lo hanno accompagnato lungo il corso della vita, sono tutte figure solide, forti, sostenute da un amore pragmatico e terreno.

Margherita Barezzi, la prima moglie, che segue devotamente Giuseppe nei primi, tragici anni milanesi, poi Giuseppina Strepponi, fedele, paziente, saggia compagna di una vita, che lo protegge dalle tempeste dell’esistenza. Senza dimenticare Clara Maffei, amica e confidente, che fa di lui un uomo di pensiero e persino un politico, e infine Teresa Stolz, l’amore platonico e inconfessato, che gli sta accanto in silenzio, soprattutto negli anni della fertilissima vecchiaia. Ma nell’elenco va pure citata «l’antica e fedele amica» Giuseppina Morosini Negroni Prati, che lo veglierà per tre giorni sul letto di morte nella suite 105 del Grand Hotel et de Milan di via Manzoni.

 

L’albergo era diventato la residenza milanese abituale di Verdi a partire dal 1872. Nel periodo in cui era gravemente ammalato la folla sostava davanti all’ingresso e due o tre volte al giorno il direttore dell’hotel faceva affiggere i bollettini con lo stato di salute del Maestro. Su quella che allora veniva chiamata “Corsia dei Giardini” fu sparsa della paglia per attutire i rumori delle carrozze e dei cavalli, e non disturbare così l’agonia del compositore. Ancora oggi all’esterno dell’hotel è affissa una targa che riporta questa scritta: «Questa casa fece ne’ secoli memoranda Giuseppe Verdi che vi fu ospite ambito e vi spirò il dì 27 gennajo del 1901. Nel primo anniversario di tanta morte pose il Comune per consenso unanime di popolo a perpetuo onore del sommo che avvivò nei petti italici con celestiali armonie il desiderio e la speranza di una patria».

 

Ma c’è un altro luogo milanese legato a filo doppio con Verdi: è il ricovero per musicisti di Piazza Wagner. Aperto nel 1902, ospita artisti anziani da tutto il mondo.

 

«Delle mie opere, quella che mi piace di più è la Casa che ho fatto costruire a Milano per accogliervi i vecchi artisti di canto non favoriti dalla fortuna o che non possedettero da giovani la virtù del risparmio. Poveri e cari compagni della mia vita!», disse il Maestro, che qui riposa nella sontuosa cappella (aperta e visitabile gratuitamente tutti i giorni).

 

E in effetti ancora oggi Casa Verdi è uno dei rari luoghi dove si ha l’impressione di qualcosa di onesto e coerente, di un’idea ben fondata che funziona con grande naturalezza. Un luogo dell’anima dove regna l’armonia.

 

Se Verdi è diventato uno degli italiani più famosi del mondo, pochi conoscono le vicende della sua storia privata. Comprese le passioni amorose. Sempre coltivate con molta discrezione. Come quel ménage à trois con la Strepponi e la Stolz, in cui il compositore si rivelò un uomo anticonformista e moderno.

«Era un uomo complicato, contraddittorio. E proprio per questo affascinante», ha detto di lui Michele Placido, che al Verdi intimo e segreto ha dedicato qualche anno fa uno spettacolo teatrale. Dicono che fosse un tipo scontroso, solitario, cupo. Sicuramente però, oltre alle donne, amava il vino. Ed era anche un buongustaio, ghiotto per esempio dei biscotti della pasticceria Alquati di Cremona che si faceva preparare e spedire appositamente.

 

A condizionare la vita affettiva di colui che è stato pomposamente definito il “cigno di Busseto”, rendendola complessa e tormentata, fu sicuramente la prima moglie: Margherita Barezzi, morta a 26 anni. Un fantasma che una sciagurata catena di lutti (la morte di due figli a due soli mesi di distanza, quindi la morte di lei, dopo altri otto) incomberà su Verdi per tutta la vita. Lei è la figlia dell’agiato commerciante di Busseto Antonio Barezzi, che nel 1830 ospita in casa il giovane compositore. Tra lui e la figlia del suo mecenate nasce un legame e i due si sposano il 4 maggio 1836.  Nascono due figli: Virginia e Icilio Romano, che moriranno però entrambi all’età di un anno. Nel febbraio del 1839, dopo che lui abbandona il suo lavoro di maestro di musica, i Verdi si trasferiscono a Milano. Margherita fa in tempo a vedere il debutto della prima opera del marito al Teatro alla Scala, l’Oberto, Conte di San Bonifacio, nel novembre del 1839. Ma muore l’anno successivo a causa di una encefalite mentre Verdi stava componendo la sua seconda opera lirica, Un giorno di regno.

 

Giuseppe Verdi a tavolaLa grande svolta avviene con il Nabucco, opera che debutta, sempre alla Scala, il 9 marzo 1942 e fa incontrare per la prima volta il genio verdiano con la sua futura seconda moglie e già soprano affermato Giuseppina Strepponi (si sposano però soltanto nel 1859) che interpreta il ruolo di Abigaille. «La Strepponi sarà una moglie devotissima, adorante. E intelligente» è ancora il commento di Michele Placido. «Ma lui aspettò 12 anni, prima di sposarla. Se la portò in casa more uxorio (e nonostante lei avesse uno o due figli segreti) scandalizzando i bravi abitanti di Busseto. Lei l’adorò sempre: contribuì a lanciarlo, lo introdusse nei migliori salotti. Ma lui, a quanto pare, la trattava malissimo: la rimproverava di non saper gestire la servitù, scatenava collere epiche per dei nonnulla».

 

Invece, tra le tante testimonianze dell’amore di Giuseppina c’è una lettera del 5 dicembre 1860 in cui si legge: «Ti giuro, e tu non avrai difficoltà a crederlo, che io molte volte sono quasi sorpresa che tu sappia la musica! Per quanto quest’arte sia divina e il tuo genio degno dell’arte che professi, pure il talismano che mi affascina e che io adoro in te, è il tuo carattere, il tuo onore, la tua indulgenza per gli errori degli altri, mentre sei tanto severo con te stesso. La tua carità piena di pudore e di mistero – la tua altera indipendenza e la tua semplicità di fanciullo, qualità proprio di quella tua natura che seppe conservare una selvaggia verginità d’idee e di sentimenti in mezzo alla cloaca umana! O mio Verdi, io non sono degna di te e l’amore che mi porti è una carità, un balsamo a un cuore qualche volta ben triste, sotto le apparenze dell’allegria. Continua ad amarmi, amami anche dopo morta ond’io mi presenti alla Divina Giustizia ricca del tuo amore e delle tue preghiere, o mio Redentore!».

Il 14 novembre 1897 anche la seconda moglie morì, a causa di una polmonite, lasciando Verdi solo nella sua lunga vecchiaia.

 

La terza donna di Verdi è stata Teresa Stolz: il pettegolezzo più chiacchierato della storia dell’opera. Generazioni di storici ci si sono scervellati sul dilemma: erano amanti o no? Secondo alcuni era soltanto una cara amica di famiglia. Descritta come «il soprano verdiano drammatico per eccellenza, potente e appassionata, ma dotata da tono sicuro e da molto autocontrollo» ceca naturalizzata italiana, era nata nel 1834 e morì a Milano nel 1902.

 

La curiosità è scoprire che la Stolz dedicò gli ultimi mesi della sua esistenza (e una somma di denaro enorme) alla sistemazione e all’abbellimento del tempio funerario del suo adoratore. La piccola cappella che ospita la tomba di Verdi si affaccia in un balconcino di marmo, su colonne alte e pareti dipinte con angeli e una bellissima volta azzurra di lapislazzuli su cui risplende un sole dorato. Al di sotto, anonime e ovattate, le due tombe, con i nomi in rilievo: Giuseppe Verdi e Giuseppina Strepponi. Oltre al sepolcro della prima moglie, Margherita, e dei due figli morti bambini. E al celebre epitaffio di Gabriele D’Annunzio: «Diede una voce alle speranze e ai lutti. Pianse e amò per tutti».

 

Alla parete sono appoggiate due corone che ricordano la visita di Vittorio Emanuele III l’8 ottobre 1901. Su suggerimento della regina Margherita venne successivamente aggiunta una targa in ricordo della prima moglie e dei suoi due figli: «Dolce consorte a lui vicina nelle prime lotte della vita, lo fece padre di Igino e Virginia, desiderati e pianti ancora piccoli».

 

Al centro del grande mosaico la Stolz volle due figure di geni che levano alta una corona ornata da bacche d’oro e un medaglione con il ritratto di Verdi fuso in bronzo da Giovanni Lomazzi. Quel che non è dato sapere ai visitatori più maliziosi è se Giuseppina Strepponi, eterna e gelosa rivale, non abbia mandato a Teresa Stolz qualche maledizione dall’oltretomba.

 

Per saperne di più: http://www.casaverdi.org

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Marina Moioli

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