«Ciao, Adriana, vo’ a allenarmi. Ci vediamo stasera». E spariva.
Adriana, la moglie, sospirava tra sé e sé, giustamente: possibile che debba correre in bicicletta anche adesso, con i tedeschi che hanno le dita sul grilletto dei mitra e i fascisti che vagano schiumando rabbia in cerca di partigiani da consegnare al comando nazista di Firenze?
Ma lui era così: poche parole e via sui pedali.
Gino Bartali, quello che all’esordio fu chiamato Bartàli e poi, fino alla fine dei suoi giorni, Ginettaccio, quello che «gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare» quello che brontolava e litigava da veemente toscanaccio con chiunque, in realtà era un buono. Anzi, un Giusto.
Cercate tra le foto delle sue gare, lo vedrete quasi sempre imbronciato, in alcune situazioni di corsa litiga addirittura con qualche tifoso perché «’un mi garba chi insulta i ciclisti». In altre foto è il suo viso a parlare: corrucciato, bocca aperta a cercare aria, rughe sulla fronte spesse come scie tracciate da un aratro, trasmette la sua fatica a chi guarda, non cerca aiuto né compassione, è orgoglioso della sua infinita stanchezza che trascina in solitudine mulinando con le gambe.
Gino era così: burbero e scorbutico, bastian contrario e schiena dritta.
Il fascismo gli ordinò di ritirarsi dal Tour de France del 1937. Si pensava che nello stesso anno fosse impossibile vincere la corsa francese e il Giro d’Italia. Lui il Giro se l’era pappato alla grande ed era sicuro di poter diventare il primo al mondo a vincere nello stesso anno le due corse a tappe più importanti. Ma il regime non voleva rischiare brutte figure, coi francesi poi, figuriamoci. Così, quando durante una tappa cadde in un torrente gelido e si buscò una bronchite, dall’alto arrivò l’imperativo: «Ritirati immediatamente!».
Lui avrebbe continuato lo stesso, sicuro di poter debellare la bronchite così come faceva con gli avversari. Non gli andò mai giù, e quando faceva i conti delle sue vittorie più importanti (tre Giri d’Italia, quattro Milano-Sanremo, tre Giri di Lombardia, sette volte miglior scalatore del Giro – record ancora imbattuto -, tre campionati italiani) in fondo metteva il Tour e diceva, con quella voce roca che ha fatto epoca: «Ne ho vinti due ma potevano essere tre se me l’avessero fatto correre, e forse quattro con quello del 1950».
L’ultimo Tour mancato fu però colpa di una sua cocciuta presa di posizione, netta e definitiva. Il 25 luglio 1950 Gino vince la tappa e Fiorenzo Magni conquista la maglia gialla. Allora si correva per squadre nazionali, gli sponsor ancora non c’erano, e l’Italia sognava un successo per la Nazionale di ciclismo. Ma il giorno dopo, sul Col d’Aspin, alcuni tifosi francesi aggrediscono Gino, e a sentire lui volano anche qualche pugno e molti sputi, tutti per lui. Bartali continua fino alla fine della tappa, poi, passato il traguardo, ordina ai compagni di tornare in Italia.
Gli organizzatori lo pregano in ginocchio di non farlo, ma Ginettaccio è irremovibile.
«Ciao Adriana, vo’ a allenarmi». Già, la guerra, Firenze occupata, i nazisti, e lui va in bicicletta. Allenarsi per cosa, poi? Le gare non ci sono più da qualche anno. Mah…
Gino inforca la bici e va in centro a Firenze, entra nella curia vescovile. Chi lo vede commenta: «Gino il pio, va a baciare la mano al cardinale e poi s’allena». Pochi minuti e via, pedalando. Da Firenze ad Assisi e ritorno in giornata. Lo fa spesso.
Nessuno, per molti anni, saprà il vero perché.
Quando conobbi il figlio Andrea, mi raccontò la verità: «Non disse nulla a nessuno di noi fino a pochi anni prima di morire. Andava in curia e il cardinale Dalla Costa gli dava dei documenti da falsificare per salvare molti ebrei dalla deportazione. Lui li nascondeva nel telaio della bici e poi li consegnava in un convento di Assisi. Altre volte corse fino a Roma, addirittura, in Vaticano, rientrando sempre in giornata, per non destare sospetti».
Un giorno una pattuglia in cerca di partigiani lo ferma e vorrebbe portarlo in caserma. Un soldato però lo riconosce. È la sua salvezza: «Ma questo è Bartali, lasciatelo andare, che si sta allenando».
Non disse neanche di quella volta che ospitò per qualche giorno, nascondendola in cantina, la famiglia Goldenberg, padre, madre e due figli.
Perché quei silenzi? Solo per non correre pericoli? Il figlio di Bartali glielo chiese, e Gino rispose a modo suo: «Perché i’ bbene si fa e non si dice. Te tu quando fai all’amore lo racconti, forse?».
Così, che Bartali abbia contribuito a salvare circa 800 ebrei dalla deportazione grazie a quei misteriosi allenamenti lo si seppe solo dopo la sua morte, avvenuta nel 2000.
Nel 2005 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi lo ha insignito alla memoria della medaglia d’oro al valore civile. Nel 2013 il Yad Vashem lo ha dichiarato Giusto tra le Nazioni.
Quest’anno il Giro d’Italia parte da Gerusalemme e per l’occasione Bartali sarà insignito della cittadinanza onoraria israeliana. Un campionissimo dello sport e della vita.
A proposito: se passate da Firenze, nella frazione di Ponte a Ema, dove Gino nacque, c’è il Museo di Bartali. Fino al gennaio 2017 la situazione era questa: niente custodi, e qualcuno ha già rubato quello che ha potuto; aperto solo tre giorni alla settimana; niente insegne né indicazioni nelle strade vicine; e non era inserito nel circuito dei musei cittadini di Firenze.
Ora, sembra che le cose stiano cambiando, faticosamente e lentamente, in meglio. Gino è un Giusto, l’Italia arranca in salita.
Manuel Gandin