MOLLY BROWN
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Inaffondabili

FRANÇOISE SAGAN: la ricerca (vana) della felicità

La felicita è qualcosa che solo l’anima può percepire, non l’intelligenza, né lo stomaco, né la testa o il portafoglio. Herman Hesse

Le migliori premesse c’erano tutte. Era nata nel 1935 nel dipartimento francese del Lot in una famiglia borghese agiata poi trasferitasi a Parigi e lei stessa raccontava di aver vissuto un’infanzia e un’adolescenza spensierate, per le quali sapeva di dover ringraziare i genitori. E allora perché nel 1953, a soli diciotto anni, dopo aver fallito l’esame propedeutico alla Sorbona, rinchiusa per sei settimane nell’appartamento di famiglia in rue des Malesherbes scrive a tempo di record il suo primo romanzo: Bonjour tristesse (Buongiorno, tristezza)? Nel gennaio del 1954 l’autrice in erba porta il manoscritto a un editore, René Julliard, che decide subito di pubblicarlo. Il successo è immediato e strabiliante: i primi cinquemila esemplari vanno esauriti in pochi giorni, i primi cinquantamila prima dell’estate. In seguito, le copie vendute diventarono milioni e il libro venne tradotto in quindici lingue. 

Messo all’indice dal Vaticano, il libro fece scandalo, ma il premio Nobel François Mauriac si scomodò a scrivere su Le Figaro: «Il talento di questa ragazza terribile non si discute!»

La neoscrittrice dichiarerà in un’intervista: «Esito ad apporre il nome, il bel nome grave di tristezza su questo sentimento, del quale la noia, la dolcezza mi ossessionano. È un sentimento così completo, così egoista che io quasi me ne vergogno, mentre la tristezza mi è sempre parsa onorevole». E se il titolo del libro che l’ha resa celebre pare tratto da un verso di Paul Éluard, è indubbio che per l’enfant prodige della letteratura francese Françoise Sagan il leitmotiv della vita sarà poi sempre la ricerca della felicità. 

Al primo libro seguirono altri successi, come Un certain sourire nel 1956 e, poi Aimez-vous Brahms…? nel 1959.

Nelle pagine della Sagan (che frequentava sì le “tout Paris” della gente bene ma si era anche lasciata rovinare dagli eccessi) non sono mai i buoni sentimenti a prevalere.

Anzi! Di lei c’è chi ha scritto che è stata «maestra nel tratteggiare un’umanità di entrambi i sessi spesso meschina, piuttosto qualunque, mossa da sospetti banali, giganteschi egoismi, irrefrenabili invidie, problemi sciocchi. Tradimenti, attese deluse, attrazioni fatali sono le molle di racconti chiusi dentro una sonnolenta ripetitività e un corto respiro narrativo, dove però circola sempre un’attraente, autentica, irriducibile malinconia, un desiderio suicida di perdersi il meglio della vita proprio mentre sembrava lo si stesse cercando».

Nel romanzo Chamade edito in Francia nel 1965 e tradotto in italiano con il titolo All’impazzata, la Sagan fa dire al personaggio di Lucile: «Ci sono a volte, nella solitudine, momenti di felicità perfetta, il cui ricordo, in situazioni di crisi, può salvare dalla disperazione più di quanto possa fare quello di qualsiasi evento esteriore. Poiché sappiamo che siamo stati felici, soli e senza motivo. Sappiamo che è possibile». E non è certo un caso se ancora oggi la Sagan viene ricordata anche per questa battuta: «Col denaro l’infelicità si sopporta meglio».

A dimostrare però che alla fortuna non sempre, o quasi mai, corrisponde la felicità, sta proprio la sorte della scrittrice:

una donna che poteva avere tutto e non si è privata di nulla, che ha avuto una notorietà mondiale, che ha amato trasgressivamente e intensamente (due mariti e due compagne), che è andata sempre controcorrente, perdendosi poi nel senso di vuoto, nella noia, nella solitudine, dettato, dicunt, dalla ricerca spasmodica e angosciosa della felicità. 

Rivelatrice è anche questa sua dichiarazione: «Non credo che le prove servano a qualcosa, nel senso che raramente sono sufficienti a far tacere quelle due tendenze profonde che sono un certo desiderio di felicità da un lato, un certo abbandono all’infelicità dall’altro». E ha aggiunto: «Ciò che mi interessa è soprattutto la solitudine». 

Nei suoi libri, in effetti, ha sempre inseguito un’umanità smarrita nella solitudine.

E lei, che si è raccontata nel romanzo a sfondo autobiografico Col mio miglior ricordo del 1984, diceva di sè: «Il mio passatempo preferito è lasciare passare il tempo, avere tempo, prender tempo, perder tempo, vivere in controtendenza». Tornava così a essere Françoise Quoirez, quel nome di famiglia che nessuno conosceva. Lei aveva scelto per sé un altro nome, affettuoso e musicale, preso in prestito dal principe parigino De Sagan immortalato da Proust. 

La sorte non è stata amica del mito letterario che fece fremere la gioventù degli Anni Sessanta.

Morirà in miseria, in una clinica per disabili in Normandia, abbandonata da tutti, fan e amici, dimentica del passato e di se stessa. Ecco cosa scrisse Ulderico Munzi sul Corriere della Sera del 25 settembre 2004 nel coccodrillo: «Françoise Sagan è morta ieri nella più squallida indigenza, magra come un chiodo, da tempo incapace di scambiare non solo delle idee, ma qualche parola. Aveva sessantanove anni, ma ne dimostrava quindici di più. Una “foglia morta”. Era stata una scrittrice prolifica. Quasi cinquanta opere, tra romanzi, sceneggiature, novelle, drammi teatrali. Avrebbe dovuto finire i suoi giorni da ricca signora delle lettere, invece il fisco e la giustizia l’avevano perseguitata con ferocia». 

Una fine terribile e infelice, che forse lei stessa si era in qualche modo immaginata quando scriveva:

«E si scambiavano baci di amanti appassionati, perché erano due esempi della vita mal vissuta e non se ne curavano. E si volevano bene. E la sigaretta bagnata che Bernard tentava invano di accendere era l’immagine della loro vita. Perché non avrebbero mai saputo, veramente, essere felici, e già se ne rendevano conto. E, oscuramente, sapevano pure che non aveva importanza. Proprio nessuna».

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