Un occhio e una memoria straordinari, asserviti a una curiosità onnivora; l’eccezionale preparazione artistica, dovuta alla frequentazione di due maestri come Longhi e Berenson; il forte spirito polemico, sempre controcorrente.
Questi alcuni dei tratti tipici di Federico Zeri, che tra gli storici dell’arte italiani è stato a lungo uno dei più amati grazie alla competenza, alla felice verve critica ma soprattutto alla semplicità e accessibilità con cui amava rivolgersi al pubblico rispetto a molti colleghi suoi contemporanei. Ha inventato uno stile divulgativo interpretato in seguito, in modo chiaramente differente, e spesso con successo, da Philippe Daverio, Vittorio Sgarbi (che di lui diceva “è il più cattivo, quindi il migliore”), Flavio Caroli e altri.
Era d’altronde anche tra i critici d’arte più temuti, perché nelle sue «frecciate» non risparmiava nessuno. Rivelatore il titolo di un suo celebre libro: Orto Aperto. «Io non credo all’Hortus conclusus che è il modello di molti intellettuali italiani che parlano per sé e per i propri amici» diceva. «Tutti devono poter accedere al mio orto. Non credo alle culture elitarie».
Fruttero & Lucentini lo paragonavano a grandi saggisti come Isahia Berlin, per la dote naturale di farci sentire «intelligenti», fornendoci le spiegazioni più semplici e comprensibili dei misteri dell’arte più complessi ma Zeri aveva in effetti qualcosa in più: una feconda verve narrativa da grande scrittore, con un forte «senso dell’enigma», un mistero che svelava sempre con una certa suspense, mai banalmente.
Nelle sue lezioni emergeva spesso un gusto particolare per i grandi raffronti storici e per la ricerca di una ciclicità nella storia del potere, dell’arte, della cultura. Gli aneddoti erano fondamentali per catturare la curiosità del lettore, lo sapeva, ma poi occorreva approfondire criticamente ed essere capaci di una sintesi storica efficace, e di confronto appunto. Lo aiutava quella «curiosità senza limiti» che gli attribuiva Giuliano Briganti.
Vedeva, per esempio, una continuazione dell’impero romano bizantino nell’impero russo zarista e poi nell’Urss di Stalin: «Ci sono forme mentali tipiche dell’impero romano, religiose anzitutto e artistiche particolare, che, rimaste nell’impero bizantino, sono poi passate alla Russia. I Russi derivano da Bisanzio la religione greco ortodossa; l’alfabeto cirillico non è altro che l’alfabeto greco mal capito; l’aquila degli Zar è l’aquila a due teste (che guardano una a occidente, l’altra a oriente) degli imperatori bizantini.
In Russia negli anni Venti si è già assistito a una fioritura, che è l’ultimo momento dell’influsso occidentale sulla cultura bizantina. Quello che è successo nel periodo della Nep prima del 1930 è il parallelo di quanto è successo nella repubblica di Weimar. Dopo, nell’Urss di Stalin, è tornato lo spirito tradizionale: l’autocrazia, il passaporto interno, le camere di tortura, e tutto ciò proveniva dalla civiltà bizantina».
Tra i bersagli dei suoi j’accuse c’era sempre l’amministrazione dei beni culturali italiani, i pasticci della «Minerva burocratica», ma anche gli intellettuali e gli storici dell’arte che tacevano e tacciono di fronte agli scandali macroscopici, piegati al silenzio dalla prossima scadenza di un concorso universitario o di un elezione da cui si attendono possibili cariche e prebende.
Direttore dell’Ufficio antichità e Belle Arti tra il 1948 e il 1952, Zeri è stato anche consulente di grandi collezionisti privati all’estero (il museo Paul Getty di Malibu in particolare) e possedeva egli stesso un’importante collezione nella sua casa a Mentana.
«La donerebbe mai allo Stato?» gli chiesero. «Allo Stato italiano? Preferirei piuttosto calcificarla, bruciarla! Per darla a uno Stato che non espone, che non cataloga e che manda in giro i capolavori per decorare uffici di ambasciate e sedi ministeriali, no. Se potessi donarla ad un museo straniero sarebbe meglio!».
Aveva servito nella pubblica amministrazione ma si era dimesso. Aveva intuito prima di molti le potenzialità di Milano: prima che arrivassero il Museo del Novecento e le Gallerie d’Italia, mostrava di apprezzare realtà più piccole ma curate come il Poldi Pezzoli, «uno dei pochi musei vivi a confronto con molti musei civici, freddi e noiosi».
Nel 1989 fu incaricato di coordinare il catalogo della Galleria di Brera: da romano amava passeggiare per le ottocentesche vie milanesi, rifuggendo da ogni itinerario classico, vagando senza meta, curiosando negli splendidi cortili, veri e propri tesori. Anche il paesaggio urbano era per lui un fatto culturale, capace d’influenzare la nostra cultura. «Fanno le leggi contro la droga, e non fanno niente contro i “palazzinari” che hanno distrutto le periferie delle nostre città, dove vivono oggi i ragazzi in condizioni spaventose…».
Per lui l’Italia doveva la sua incapacità di tutelare i propri beni artistici alle sue radici di arcaica civiltà agricola, una società che non ha mai conosciuto il concetto di «manutenzione». «In Italia si pensa solo alla cosa bella al momento dell’inaugurazione. Ma poi c’è la manutenzione. E’ facile farsi una casa molto bella, se si hanno i mezzi, bisogna vedere poi come la si mantiene».
Nel nostro Paese, denunciava, ci sono migliaia di quadri pregevoli non esposti, che potrebbero andare a riempire molti altri musei alimentando il turismo e tenendo le opere sotto controllo e in buono stato di conservazione.
E poi c’è poi la questione del restauro, che giudicava fondamentale purché non andasse al di là dei propri confini e del ripristino delle condizioni originali: la pulitura di un affresco, per esempio, ma non l’uso di sostanze chimiche di cui non conosciamo i possibili effetti tra 50, o 100 anni.
Lo preoccupava soprattutto il restauro che sconfina nella ricostruzione. «E’ una moda terribile che ha devastato l’Italia soprattutto all’inizio di questo secolo: il voler riportare le linee originali, che poi sono state in gran parte inventate. Da un mattone sovente si è ricostruita un’intera facciata. E’ stata grattata via la storia di interi edifici per riportare alla luce l’antico. Una quantità di chiese sono state scartavetrate secondo un tipico stile Sovrintendenza.»
Ce l’aveva con i musei mal gestiti ma anche con molte effimere esposizioni. I musei, sosteneva, si concentrano su pochi pezzi sbarazzandosi di fatto di quelli considerati minori, che però costituiscono l’humus culturale, storico in cui sono nati i capolavori, necessari quindi per comprenderli e goderli appieno.
«E’ un criterio assurdo soprattutto per collezioni, storiche come ci sono a Torino, Venezia, Firenze, Milano, per cui andrebbe esposto il più complesso panorama di un’epoca. E’ un criterio che, può andare bene per i musei americani che importano opere perché non le hanno prodotte sul luogo. Poi c’è il caso di musei in cui il contenuto è sacrificato al contenitore. Ma il problema è che il museo italiano è morto, perché non fa parte della collettività: è un innesto alieno in una società cui non importa niente di opere d’arte. Quanti italiani vanno a visitare i musei e quanti vanno ai concerti rock?» In compenso le mostre sono affollatissime.
E poi condannava la frenetica corsa alle mostre perché già allora ce n’erano troppe e spesso mal curate. Parlava all’epoca di Morandimania benché fosse un amante di Morandi. Più tardi se la sarebbe presa con l’inflazione di impressionisti d’ogni ordine e grado. Ma se la sensibilità collettiva su questi temi è cresciuta nel tempo e qualche passo avanti è stato fatto persino nella gestione di qualche realtà del patrimonio pubblico è sicuramente anche merito suo e delle sue competenti e amabili sfuriate.
Carlo Alberto Brioschi