Fausto Coppi e Bartali, Toscana e Piemonte, Ginettaccio – il “naso triste da italiano in gita” – contro l’Airone, che come l’albatro di Baudelaire dispiegava le ali, bellissimo e imbattibile sopra a quello strumento avveniristico e povero, di ferro e di poesia, che qualcuno si ostina a chiamare bici.
Per descrivere Fausto Coppi si possono battere tanti sentieri, in primis l’epica. Gianni Brera lo descrisse così, ancora nel 1949:
«Su due spalle stranamente esili s’innesta il capo che neri e lisci capelli, quasi mai pettinati, paiono rendere allungato a dismisura. E il collo, che pure è sottile, quasi si perde nella secchezza della mandibola e nella nuca folta di capelli. Il torace, per una anomalia che è invece funzionale e a tutta prima non ti spieghi, via via che scende, ingrandisce, lo sterno pare carenato come negli uccelli. Ancora ogni normale linea anatomica viene smentita in lui da un improvviso dilatarsi delle anche, dall’assenza totale di un ventre che minimamente sporga, da una brevità del tronco allorché l’uomo è all’impiedi, che rende vistosa assai la solida falcatura delle reni». Poi, per raccontare Coppi, vi sono la terra, quella terra; la povertà dignitosa e solida di quei tempi; la Guerra, che ha tolto a tantissimi la vita e ai più, comunque, i migliori anni della vita; la gloria di uno sport povero e insieme nobilissimo; la rivalità, l’amicizia, alla fine l’incredulità per la morte assurda e persino i sospetti, che ancora, e da allora, allignano in paese.
Prima che la gloria gli sorrida, la vicenda umana e sportiva di Fausto Coppi – oggi, nel 2019, compirebbe 100 anni; oggi, il 2 gennaio, son 59 anni che moriva – si snoda in queste colline nebbiose oppure verdissime, tra questi polverosi e calcinati stradoni; ora schivando la neve, ora sotto il sole abbacinante; godendo di queste viste, laggiù Milano e la pianura padana, più in qua, oltre le alture, Genova la selvaggia, eppure anche parente. È una terra atipica, tra Novi Ligure, Alessandria, e Tortona, che fu già di Costante Girardengo; mondo di ciclisti e di vino, di comignoli e di olmi, di gente di passaggio (una leggenda racconta anche di mori); di torrioni e di focaccia, di pievi e di farinate.
Il paese è Castellania, oggi celebre meta, mecca dei ciclofili, e allora terra di partenza per il padre di Fausto, che batteva i mercati lì attorno, portando l’uva e altri magri raccolti. La prima passione del piccolo Fausto fu una cavalla di nome Zagara, poi, a 15 anni venne il cavallo di ferro, una Maino color grigio. Divenne garzone di salumiere – della salumeria “Merlano”, in centro a Novi, che oggi non esiste più, ma che tutti ricordano – il suo destino era probabilmente quello di diventare “massapursè”, l’ammazza maiali. Isidoro Bergaglio che correva con lui, qualcuno dice, «più forte di lui, almeno all’inizio», lo scopre e, nel 1937, lo porta dal “mago” Biagio Cavanna, l’omone, non ancora completamente cieco: se nella storia dello sport esistono varie figure di demiurgo, nessuno fu come quest’uomo (talent scout, manager, allenatore, anche massaggiatore?) capace, toccando lo “chassis”, il torace, le caviglie quindi solo alla fine, i muscoli delle gambe di prevedere il futuro di un campione. «Ma chi mi hai portato?», dice il burbero Biagio a Bergaglio, «Questo qui ha le gambe di una donna». A Isidoro tocca insistere; e si scopre che Coppi ha un cuore grande davvero; ed è così che la vita di Coppi – e forse di tutti gli italiani di allora, in un certo senso – cambia per sempre.
E ora, la gloria di un uomo che, secondo Gianni Brera, fu semplicemente, il più grande sportivo del Novecento italiano. La radio accompagnava quei tempi eroici: Mario Ferretti squarciava con la sua voce quelle giornate dure e monotone del dopoguerra italiano, facendole diventare radiose: «Un uomo solo è al comando, la sua maglia è biancoceleste…». Prima di partire per la guerra in Tunisia aveva ottenuto il record dell’ora al Vigorelli di Milano; poi, passata la bufera – «chissà quante vittorie, se non ci fosse stata la guerra», ha detto Eddy Merckx, uno che se ne intendeva, ecco il ritorno alle corse, la Sanremo del 1946 dopo 147 chilometri di fuga, iniziata sul Turchino; il Giro del ’49 con la mitica Cuneo-Pinerolo e 192 chilometri di fuga, scalando cinque colli (Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro e Sestriere), con Bartali umiliato; i trionfi al Tour de France del 1952, nel Giro del ’53, al Mondiale su strada dello stesso anno, fino al canto del cigno, il Giro della Lombardia del 1954. In quello stesso anno appare la “dama bianca”, Giulia Occhini. Inizia una relazione clandestina che dà scandalo: pubblica reprimenda da parte del papa Pio XII per abbandono del letto coniugale, arresto per adulterio, pena dapprima di un mese di carcere ad Alessandria, poi ai domiciliari nella casa di una zia ad Ancona.
Poi la rivalità. Non lo potevano sapere, eppure i colpevoli sono loro, di questa polarizzazione che ha avuto una deriva inaspettata e violenta; noi e loro, bianchi e neri, guelfi e ghibellini, coppiani e bartaliani. Certo – e chi lo nega? – già Dante ce l’aveva raccontato di questo campanile, di questa faziosità tutta italiana, ma, restando alle vicende sportive e prima ancora di Mazzola/Rivera, di Baggio/Del Piero, di Juve e tutti gli altri, mai vi era stata una contrapposizione così netta, filosofica, antropologica, tra sostenitori di uno o dell’altro. Accumunati, tra l’altro – particolare inquietante – dall’aver avuto entrambi un fratello morto in gara. «Amici d’infanzia – scrisse Vasco Pratolini – che si tolgono il saluto per una divergenza su Bartali o su Coppi, su un arrivo di tappa…». Coppi, senza Bartali, non sarebbe diventato Coppi. E viceversa. Il vecchio (Gino) e Fausto il giovane (anche se la differenza era solo di 5 anni); il brontolone toscano – «gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare» – e l’introverso piemontese; Gino forte e resistente, la fatica è il suo timbro, Coppi lo stile perfetto, la modernità; uno è un uomo di ferro, l’altro, con le sue 13 fratture in carriera, un fragile prodigio di cristallo pregiato; il bianco e il rosso: qui c’è un po’ di forzatura, insieme avevano firmato un manifesto pro-Dc prima delle elezioni del 1948, ma vuoi mettere, Coppi il libertino, idolo dei laici, e persino dei comunisti. E poi, Coppi tifava Torino, Bartali per la Juventus, anche se si dice fosse semplicemente perché i colori della maglia erano quelli del suo paese, Ponte a Ema, prima che l’inglobasse Firenze. Mario Fossati si avventura in una comparazione di carriere: Tour de France 2 a 2; Giro d’Italia 5 a 3 per Coppi; Campionati mondiali su strada 1 a 0 per Coppi; Milano-Sanremo 4 a 3 per Bartali, totale corse 124 a 122 per Bartali. Ma forse è meglio lasciare il dubbio, la scelta, il campo all’interpretazione; come irrisolto rimarrà il magnifico e teatrale mistero di quella foto sul colle del Galibier, durante il Tour 1952: chi passa la borraccia a chi, chi è l’assetato e chi il generoso?
Fino alla fine da eroe tragico melanconico, Coppi tramonta come fosse – lui, non la sua storia – un romanzo ottocentesco. Deve mantenere due famiglie, si spende, infelice, strapazza il suo fisico, corre circuiti esibizione fino allo stremo, per racimolare i soldi che sufficienti non sono mai. Amicizie, necessità e chissà, ancora un po’ di ambizione lo porteranno nell’Alto Volta, a contrarre (forse) la mortale malaria. Di questo malinconico tramonto, vi sono tracce televisive, al “Musichiere” di Mario Riva del 1959, dove canta una volta “Nel blu dipinto di blu” e l’altra, insieme a Bartali in “C’eravamo tanto amati”; e ancora nel romanzo breriano “Coppi e il diavolo” che esce nel 1981.
Infine, quel Natale-Capodanno tragico, a cavallo di due decenni, tra il 1959 e il ’60. “Fausto Coppi fu ucciso” giornali titolati scrissero. Forse voleva tornare dalla moglie Bruna, qualcuno sussurra (ancora) che prendesse qualche pastiglia “di quelle”. Il dottor Allegri, il medico di famiglia, aveva diagnosticato una banale influenza. Poi i consulti, con gli eminenti professori, il ricovero a Tortona. Alle ore 8 e 45 del 2 gennaio Fausto si spegne, mentre in Francia il collega Raphael Geminiani, si salva dalla malaria grazie al chinino. «Quel funerale di Fausto Coppi – scrisse il grandissimo giornalista Mario Fossati – l’ho sempre inciso nella retina. Il pomeriggio era chiaro, luminoso. Gente a migliaia, commossa. Sulla campagna c’era un grande silenzio: gli occhi di tutti, di Bartali, di Magni, di Bobet, di Anquetil, di Kubler, si alzavano con indicibile malinconia verso il piccolo povero cimitero, a cavallo della collina di San Biagio contro il muro della vecchia chiesa: poi erravano lontano verso le valli della Bormida e del Po, su cui il sole estendeva i vapori della sera. Quel funerale si portava via gran parte della storia ciclistica: forse tutta». Qualcuno giura di aver sentito Ginettaccio sospirare «un po’ è come se fossi morto anch’io…».
In certe giornate, dove il fumo della nebbia si strappa e il sole illumina la terra chiazzata di neve; ecco in queste giornate il fantasma di Coppi sembra riapparire a certi vecchi di qui, che non sanno ancora se son liguri, piemontesi o lombardi. Perché il mito e l’emozione non hanno alcun luogo, e nessun tempo.