Nel gioco delle somiglianze starebbe tra Alberto Giacometti e Samuel Beckett, ma con la flemma di Poseidone quando scopre che Ulisse ha reso cieco il figlio Polifemo. La mano è quella assoluta che ha l’infanzia se non si stacca dalla disperazione nemmeno crescendo. E quindi sì, d’un tratto, quel gigante d’uomo che sorpassa presto il metro e novanta si staglia come un bambino incantato, complice della notte, dell’acqua, della fame, e dell’assoluto andare che poi implica sempre il medesimo ritorno.
Venezia sullo sfondo.
Venezia nelle ossa.
Quella di un figlio d’operaio, prole infinita, sette fratelli e sette cugini a vivere sotto lo stesso tetto.
Lo spettro della fame che insegue e una testa calda che innesca ribellione già a dodici anni quando tocca d’andare, operaio, a lavorare. A sbarcare il lunario.
Ma era ribelle. E geniale. E acceso da un demone inarrestabile che poteva apparire distruttivo mentre in fondo scavava, incideva, scendeva nella vena profonda dove scorre la linfa vitale e si preparava ad uscire.
La vita di Vedova è complessa.
Fatta di eventi di rottura fin da un’età giovanissima.
Racconta, nelle pagine del diario: «Mio padre, strano padre, vede tutte queste storie, e passionale dice che bisogna farmi studiare, vendere anche i materassi per ciò. Io intanto lavoravo la sera fino a tardi con la candela perché la mamma staccava la luce per economie. Ma invece mi mettono in fabbrica a lavorare – decorazione a smalto! Comincia là il mio dramma. Avevo 11/12 anni e conosco la realtà di alzarmi alle sei di mattina».
Non ci starà mai, lui, agli obblighi, alle imposizioni. Ha una naturale idiosincrasia per ogni forma di sopruso, sopraffazione, e in fabbrica ce ne sono eccome.
Alzerà la voce, pur se quasi bambino.
Sarà una cosa che farà sempre.
Pronto poi a pagarne in prima persona i costi.
E non avrà sconti.
Patirà la fame. Il freddo. Il tempo non lo atterrisce, e nemmeno la solitudine. Azzanna il vuoto che ha intorno e ne ritrova un sapore familiare.
Quello della città che lo ha radicato con i piedi nel mare, lo sguardo attento, e chiese in ogni anfratto, chiese e chiese e chiese.
Quella città lo nutre. Delle voci. Delle chiese. Delle tragedie. Che sono così umane.
S’innamorerà di Tintoretto. Della chiesa di San Moisè, che in un disegno del 1938 renderà in quella sua scala di visione che è la dismisura.
Lo spazio inghiotte, si dilata.
Lo spazio è genio, sregolatezza, opulenza, miseria.
Folgora.
Sorpassa.
Le geometrie che trasforma, trasfigura, realizzano un luogo che resta lo stesso, perché è già in sé magia, nelle geometrie e negli arzigogoli, stregati, di cui è capace, appunto, Venezia.
«Sin da quindici anni mi affascinò lo spazio barocco, il trovarmi dinanzi a modelli architettonici mossi di rientranze e sporgenze – buchi di luce – residuati di spazi classici, invasi, devastati da sovrapposizioni pittoriche, l’identificarmi in quella mobilità, in quel discorso spaziale fatto di relatività, di continuo trasformarsi, in un dissolversi di piani: un non chiudere, un non fissare» scriverà nel 1956, ormai alle spalle quegli anni cosiddetti giovanili, che ritornano tra le Pagine di diario, nelle Edizioni Galleria Blu, Milano, del 1960, riproposte, per il centenario della nascita, lo scorso anno, da Marsilio in un libro strepitoso, quanto a grafica e interesse.
E in quei buchi di luce s’insinua l’architettura d’un universo stregato. Quello d’un popolo invisibile. Per cui tutto è relativo, tutto è possibile, e sublime, nella sua carnale irrazionalità.
Dalle dita di Vedova sembrano avanzare, in penombra, controluce, i giganti freddi di David Foster Wallace. Lui che nella Chiesa fatta senza mani, racconto inserito tra le Brevi interviste con uomini schifosi, di loro dice: «La falcata del gigante di vetro copre un miglio. Cammina tutti i giorni tutto il giorno. Non si ferma mai. Non si può riposare. Perché vive nel terrore che la sua foresta ghiacciata si sciolga. Il terrore lo fa camminare senza posa. […] il gigante di vetro cammina per tutta la foresta bianca, con falcate di un miglio, giorno e notte, e il calore delle falcate scioglie la foresta alle sue spalle».
Ma, come conclude Foster Wallace, non il disastro si produce.
Invece l’arcobaleno. «Il gigante di vetro è l’arcobaleno».
Lo stesso che sembra di scorgere anche ora, nel tratto di chi ha saputo denudare l’uomo del suo sommo potere di mimesi, sparandolo come un fuoco d’artificio nel cielo millenario di Venezia, per incontrare di nuovo e sempre una volta affrescata, a cupola o invece a campana. Una grande, infinita, o invisibile, minuscola, potentissima chiesa a forma di arcobaleno.
Fino al 9 febbraio in mostra a Palazzo Reale, Milano.