La prima volta che vidi Professione: reporter, il film di Michelangelo Antonioni, avevo diciassette anni e frequentavo il liceo di Lugano. Nella sala sulla collina gli spettacoli cominciavano alle tre del pomeriggio e io mi incamminavo di corsa dall’edificio del liceo dopo l’unica lezione pomeridiana del mercoledì per arrivare al cinema Lux alle tre e dieci.
Il film era già iniziato e nella sala eravamo in tre spettatori. Ciò che accadde inseguito ha segnato la mia vita.
Uscii dalla sala in pieno acquazzone, ma quasi non me ne accorsi.
La magica Spagna di Antonioni, secca, solare e straniante, mi aveva avvolto al punto da dimenticare dove mi trovavo.
L’idea del film: essere un altro, provare a cambiar pelle, vita, tutto, mi parve irresistibile.
Professione: reporter è del 1975. Gli attori principali sono Jack Nicholson e Maria Schneider. Jack Nicholson è David Locke, un giornalista di fama internazionale che segue un conflitto bellico nel deserto africano. Locke, accortosi della somiglianza con un uomo trovato morto nella locanda fuori dal mondo dove soggiorna, scambia i passaporti cercando di procurarsi una nuova vita.
È invece – come è inevitabile – è questa seconda vita a cercarlo e inseguirlo, dato che l’uomo trovato morto era un contrabbandiere d’armi.
Fuggendo/cercando il proprio destino “altro” Locke/Nicholson intraprende un viaggio in Spagna, da Barcellona fino in Andalusia. A Barcellona, nello scenario di una delle case “a forma di meringa” di Gaudí, si imbatte in Maria Schneider, una ragazza all’apparenza qualsiasi, in realtà un volto, un portamento, una disponibilità che in qualche modo racchiude in sé gli anni Settanta.
Perché quegli anni, in Occidente, furono gli anni della ribellione e della fuga, dell’immaginazione soverchiante e delle mille vie (vite) da percorrere, gli anni, insomma, della rivincita esistenziale di un giovane popolo di sognatori che voleva prendersi la rivincita sulla generazione dei propri padri.
Nel film, la fuga della coppia Nicholson-Schneider è serrata. C’è una magnifica scena in cui Maria si volta sulla decapottabile di Jack per abbracciare un filare di alberi che sembra scapparle di mano.
La conclusione è tragica. Il destino viene a riprendersi Locke/Nicholson in una piccola pensione di un paesotto non lontano da Siviglia. E qui lo spettatore assiste a un’altra meraviglia antonioniana, ovvero la scena girata fuori dal Hotel de la Gloria, in una piazzetta che racchiude in sé il senso della vita e della quotidianità: la scena dura alcuni minuti e si assiste al passaggio di alcune voci, ai goffi giri di un’utilitaria. La scena è filmata dall’interno dell’albergo, dove David – in realtà il suo doppio fuggiasco – viene ucciso da dei sicari legati al traffico d’armi in cui, malgré soi, si era ritrovato coinvolto.
Professione: reporter è il quattordicesimo lungometraggio di Antonioni e il terzo girato in lingua inglese dopo Blow up e Zabriskie Point. Secondo alcuni, è anche quello formalmente più rigoroso, risolto insomma in tutte le sue parti. La somma delle parti, una volta vista e considerata, dà la sensazione di un’ambientazione necessaria, di un’anima/genius loci che dà un’impronta tutta sua alla storia. Non per nulla il film fu girato in una Spagna allora ancora periferica ed esotica, non ancora coinvolta nelle intraprese del turismo di massa.
Ho cercato, in ben tre viaggi inframmezzati da parecchi anni, di ritrovare la piazzetta resa magica da Antonioni (sembra che la scena della morte raccontata in indiretta abbia richiesto vari giorni giacché, nonostante i mezzi di allora, il regista aveva deciso di far passare la macchina da presa attraverso le sbarre strette della finestra dell’albergo senza interrompere il piano sequenza finale).
Una prima volta, col libro della sceneggiatura in mano, arrivai fino ad Almeria e Malaga, ma non seppi trovare il villaggio dell’Hotel de la Gloria.
La seconda volta, ospite di un amico poeta che soggiornava dalle parti di Lisbona, ritornai in Andalusia convinto che il villaggio in questione si trovasse da qualche parte nell’interno.
La terza volta, seduto in un autobus che viaggiava da Malaga a Siviglia, mi fermai per pochi minuti nel villaggio in questione, senza riconoscerlo, però.
Non credo che ritornerò in Andalusia, almeno non per cercare il senso del film di Antonioni. Il senso di un altro suo film, Zabriskie Point, l’ho cercato e forse trovato nella californiana Valle della Morte, laddove in cima a una collina desertica, Zabriskie Point, appunto, si risolve la vicenda dello studente fuggiasco e della sua compagna.
Oggi mi pare di poter dire che il senso di tutto ciò fossero proprio gli anni in cui fu realizzata l’opera (le opere) di Antonioni. Era l’epoca in cui si leggevano e si discutevano libri come Il principio speranza di Ernst Bloch e L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse.
Era un’altra epoca, decisamente, “più lenta e tenera, se vuoi”, usando le parole di una canzone di Antonello Venditti, in cui tutto, per un momento lungo e nel contempo brevissimo, era apparso possibile.
Persino il fatto di avere una via di fuga a disposizione.