Monsieur Perrault quel mattino non si dava pace. Aveva davanti a sé il foglio, il calamaio, ma s’era attardato con la mano sospesa. L’inchiostro, gocciolando, aveva disegnando perfetti cerchi. I bordi ora smarginavano, penetrando il tessuto.
Zampe, pensò, evidenti zampe di bestia sul terreno.
Un lupo, rifletté, un lupo nel bosco.
Fu un barlume, una sorta d’ispirazione. L’inizio lo aveva trovato. Già ma l’inizio di che cosa?
Non era più un giovanotto, Monsieur Perrault. Esimio, stimato, rispettato, un francese doc, nessun dubbio, ma la giovinezza era altra cosa. Lui, illustre rampollo dell’alta borghesia parigina, nato il 12 gennaio 1628, dopo gli studi in legge e una carriera di letterato, ora avvertiva quella specie di fame caparbia, insaziabile, un fremito di acquolina in bocca. Per che cosa? Stava forse invecchiando? Il viso imbarbariva?
Gettò uno sguardo al vetro dello studio e colse qualcosa di selvatico. Qualche grosso dispiacere in realtà si era verificato. Da quei figli suoi. Tre. Che bambini apparivano tanto graziosi, solleciti. E invece crescendo…
Soprattutto il terzogenito, Pierre. Irascibile, impulsivo. Non si sapeva domare. Né serviva fargli la lezione, la tirata d’orecchie. Annusava i guai, s’infilava.
Non lo avrebbe ammesso mai, il padre, ma osservare quell’assenza di controllo, e riflessione, quell’agire spensierato nel senso più profondo del termine, generava dentro di lui una sorta di attenzione da entomologo: cercava il limite, la linea di confine tra gli opposti.
Luce. Ombra. Bontà. Scelleratezza. Civiltà. Bestialità.
Talvolta anche Monsieur Perrault si sentiva una somma ambivalente di nature. Gli accadeva con maggior frequenza con gli anni, e dopo si lasciava prendere da nostalgia, senza sapere di che cosa. Un impulso nuovo anche. Non più localizzato, come in gioventù, nei lombi. Piuttosto tra bocca e cervello. Lì, a spingere contro la laringe, pronta a strisciare verso l’alto, seccando le fauci e colpendo l’immaginazione.
L’immaginazione… che cosa strana era. Si stava facendo davvero insidiosa.
Gettò di nuovo uno sguardo al foglio e d’un tratto ne avvertì la presenza. Anzi, a essere precisi, dapprima la udì. Una voce.
Allegra e spensierata, che rispondeva, leziosa, ad un’altra più roca.
Una bambina, si disse Monsieur, colpendo con la mano la tempia, certo, che altro? Una bambina.
Quanto doveva essere graziosa, nella sua ingenuità verso il mondo, la vita. Non sapere nulla, di quello che attende, accadrà.
«Il était une fois», cominciò allora a ripetere lo scrittore.
«Il était une fois…»
Presto la vocina ottenne un corpo, piccino e perfettamente proporzionato. E poi un visetto, incantevole, manine perfette. Per la più graziosa di tutte le bambine che si possano immaginare.
Unica. Nuova di zecca.
Bastò un dettaglio, il “la” d’ouverture e subito le frasi presero a scorrere rapidissime.
Quel dettaglio – un lampo negli occhi.
Una macchia di rosso, rosso fuoco. Che poi si rivelò essere un cappuccetto. Come un morso di fragolina selvatica, o di quei fruits rouges che sono la delizia di Francia.
Perrault pensò alla lanterna magica, oggetto ormai di gran moda nel beau monde. Il merito della descrizione di quel marchingegno prodigioso andava al padre gesuita Athanasius Kircher, che l’aveva inclusa, nel 1646, nel suo libro Ars Magna Lucis et Umbrae. Veniva dalla Cina, si diceva, e l’avevano portata gli arabi.
Quel mattino, nella stanza Monsieur avrebbe giurato di possederne una, di quell’ottone ben lustrato con le immagini dipinte su vetro.
Proiettavano una bambina, una casetta e un filo di fumo che usciva dal camino. E che delizioso profumo si spandeva attorno.
Così, avvinto dalla curiosità, quello che sarebbe diventato il più noto scrittore di fiabe di tutti i tempi ascoltò madre e figlia parlare. Di una focaccia per la nonna. La nonna malata, dall’altra parte del bosco.
E la bambina, incaricata di portarle il cestino.
Tutto qui.
Nessun ammonimento, in realtà. (Quelli li aggiunsero nella versione ottocentesca i teutonici fratelli Grimm). Un trillare di saluti invece e una piccola danza con cui la vivace creaturina si incammina verso la strada, immemore d’ogni ricchezza e d’ogni pericolo. Che altro è l’infanzia, se non questo?
L’idea che l’istante sia un luogo da abitare, uno spazio, mica qualcosa che passa e si consuma. Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia.
Tutto semplice, tutto lineare. Nuovo di zecca.
Se solo non si mettesse d’intralcio il desiderio. Quello adulto. Calcolatore. Avido.
Una sorta d’istinto rapace che spinge a predare, far proprio. Dalla notte dei tempi (quando già Crono divorava i propri figli). Anche una bambina, come trofeo, dunque? Cibo del ventre? Furto d’anima?
Dissente, il letterato di rango. Difficile resistere però. Perché non è solo una bambina. È l’idea, insomma, quell’essenza che… Non termina la frase Perrault.
Il sorriso, ecco. Ingenuo. Ha quella lievità, quella luce. Perduta. Io l’ho perduta? L’abbiamo perduta in tanti, troppi, si lamenta lo scrittore. Oh, sono vecchio. Vecchio e sedotto dalla grazia di chi divora il mondo, sbocconcellandolo come fosse una focaccia appena sfornata. Freme, ma prosegue.
Nella stanza, a scrivere, si gode quella passeggiata nel bosco, indossando l’irsuto manto del lupo. E quella mancanza di scrupoli che non c’è uomo che non l’abbia vagheggiata. Poi per fortuna esistono i crismi sociali, esistono le regole e le imposizioni. Non lì, tuttavia, lì la fabula s’impone.
E la fabula chiama in causa il bestione, che, mentre osserva quella splendida bambina, riesce comunque a controllarsi. Ragiona, organizza, s’informa, carpisce con una specie di sorriso quanto gli serve.
Una menzogna via l’altra, ordisce il piano più sciocco, semplice e famoso di tutte le storie. Accelera il passo, arriva alla casa della nonna, l’ingoia e si mette nel letto, fingendo d’essere la vecchietta.
Pranzo e cena. Pancia satolla.
Può davvero finire così? Homo homini lupus. Già.
Ma a Monsieur Perrault si stringe il cuore. Era così graziosa, la più graziosa.
Allora la mano torna indietro sul foglio, apre un varco (non esistevano i Post-it ancora) e insinua il “dialogo dei dialoghi”, quello che scriverà le pagine future di una miriade infinita di libri, film, interpretazioni.
Un dialogo che trattiene la cifra stessa d’uno dei più strani misteri che avvince la natura umana. Che cosa scatta tra desiderio e violenza? Che cosa s’insinua tra vittima e carnefice? Tra belva e innocenza?
Qual è la calamita che li fa intrecciare prima di esplodere?
«O nonna mia, che braccia grandi che avete!.
Gli è per abbracciarti meglio, bambina mia.
O nonna mia, che gambe grandi che avete!
Gli è per correr meglio, bambina mia.
O nonna mia, che orecchie grandi che avete!
Gli è per sentirci meglio, bambina mia.
O nonna mia, che occhioni grandi che avete!
Gli è per vederci meglio, bambina mia.
O nonna mia, che denti grandi che avete!
Serve solo a indugiare.
Non si torna indietro, asserisce, esausto, Monsieur Perrault.
Gli è per mangiarti meglio.» (nella traduzione di Carlo Collodi)
Il tempo è un vettore rigido e orientato senza appello. Boccone inevitabile. E lui ne sa qualcosa, di bocconi amari.
Quando nel 1697 esce la prima edizione (ce ne era stata una anonima l’anno prima), presso la Maison Claude Barbin, con il titolo Histoires ou contes du temps passé, avec des moralités meglio conosciuti come Contes de ma mère l’Oye, una tragedia si stava consumando nella sua vita.
Il terzogenito, Pierre, finisce in carcere, si macchia – così hanno ricostruito le fonti – di omicidio compiuto a seguito di una rissa. E il padre che farà? Firma la raccolta con il nome del pargolo. Spera di salvarlo, di fargli ottenere così la protezione della Corte Reale.
Ma il gesto si rivelerà inutile: il ragazzo muore due anni dopo, appena ventunenne. Il tempo è un vettore inesorabile. Non si può invertire. E la giovinezza, suo malgrado, si farà caparbiamente divorare.
Un monito, al termine della fiaba, lo si può pure indicare. Ma più per la coscienza di chi mangia, che per la salvezza di chi verrà ingurgitato.
Il testo della fiaba: https://it.wikisource.org/wiki/Cappuccetto_Rosso
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Silvia Andreoli