Anna Politkovskaja? Fino al 2015, sapevo di lei quello che sanno più o meno
tutti. Era una giornalista russa, uccisa perché aveva osato scrivere del regime
di Vladimir Putin e della guerra in Cecenia. Poi i miei agenti, Monica Malatesta e
Simone Marchi, mi passano una dritta: «Le case editrici cercano modelli positivi da
raccontare ai ragazzi». Ci penso. All’inizio mi viene in mente Salvo
D’Acquisto, il carabiniere eroe. Poi Pepe Mujica, il presidente contadino
dell’Uruguay.
Poi arriva lei. Inizio a studiarla ed è un amore a prima vista.
Bella, ma non vistosa. Elegante, ma senza orpelli. Occhi verdi, sguardo fiero.
Un carattere di ferro. Scopro che è andata oltre quaranta volte in Cecenia,
soffrendo fame, sete e freddo. Rischiando la vita a ogni imboscata. Leggo
che una volta l’hanno lasciata per tre giorni chiusa in una fossa. Un’altra volta
hanno tentato di avvelenarla e si è salvata per miracolo. L’hanno spaventata
in tutti i modi, ma lei ha tenuto duro, sempre.
“Il sogno di Anna”
Mi entusiasmo. A Feltrinelli proponiamo la storia della quindicenne Anna: vuole
fare la giornalista, segue un corso, fa della sua omonima il suo modello.
Scrivo i primi tre capitoli, contratto, un’estate a scrivere. Esce “Il sogno di
Anna”, è il 2016, sono passati 10 anni dall’omicidio di Anna Politkovskaja.
Un omicidio brutale e, in gran parte, impunito: hanno arrestato i pesci piccoli, ma
i mandanti restano nell’ombra.
Forse avrò venduto di più con i miei gialli, ma “Il sogno di Anna” si rivela il mio romanzo più importante.
Lo porto nelle scuole, avvicino i ragazzi alla
scrittura e faccio conoscere loro la grandezza di Anna Politkovskaja.
Nel frattempo, le cose in Russia (e in Cecenia) certo non migliorano. Vladimir
Putin, vent’anni fa, disse dei ceceni: «Perseguiteremo i terroristi dappertutto e
quando li troveremo, li butteremo nella tazza del cesso». E oggi tiene
l’Ucraina, e il mondo, sotto scacco, invade e rischia di scatenare una nuova
guerra mondiale.
Ramzan Kadyrov, ora come allora a capo della Cecenia, così aveva commentato l’uccisione di Anna: «Era una donna, doveva stare in cucina».
E, in tempi più recenti, dopo aver negato a lungo l’esistenza del Covid, ha
preteso di curarlo con una mistura di aglio, miele e limone. Giusto per dare
un’idea del personaggio.
Femminile singolare
Un giorno, è la primavera del 2021, scopro una nuova collana della casa
editrice Morellini: “Femminile singolare”. Si tratta di romanzi ispirati a grandi
donne. Cinque minuti dopo, propongo un libro su Anna Politkovskaja. Dieci
minuti dopo, Mauro Morellini, l’editore più veloce della storia, accetta.
Mi documento, leggo tutto quello che ha scritto Anna Politovskaja e che su di lei è stato scritto.
Osservo tutte le sue foto, catalogo pettinature, situazioni,
atteggiamenti. Visiono ore di video, qualche volta in inglese, spesso in russo
con sottotitoli improbabili. Mando centinaia di email: cerco date, dettagli,
rivelazioni, particolari inediti. Comincio a sembrare (e, probabilmente, anche
essere) un po’ fissata.
Nel frattempo, partiamo per il mare. Non c’è giorno (ma più facilmente notte)
in cui non mi dedichi ad Anna. Questa volta la sfida è scoprire la donna,
dietro alla cronista di guerra. Intervisto la sua migliore amica Nadia, che mi
racconta la fine del matrimonio con Sasha.
Mi sento con Stella Pende, che ricorda il loro incontro:
«Anna mi ha stretto la mano con una leggerezza e
una grazia che non sospettavo in una femmina combattente come lei».
Unisco i puntini e scopro che ha avuto una bruciante, ultima storia d’amore.
“Anna Politkovskaja. Reporter per amore”
La sua vita, pubblica e privata, con il massimo rispetto per la donna e la
giornalista, diventa materia con cui plasmare il mio romanzo. E quando, al
termine dell’ultima sudata versione (la quinta), metto la parola fine a questo
libro, mi è finalmente chiaro perché l’ho scritto. Il vero motivo.
Fino a un momento prima ero convinta di averlo fatto per ricordare questa donna meravigliosa.
Far vivere il suo ricordo anche al di là di tutto ciò che le
è stato dedicato negli anni: premi, piazze, spettacoli, libri…
No, non l’ho fatto per questo. Non solo, almeno.
L’ho fatto per un fine più basso ed egoistico. L’ho fatto perché sono una
scrittrice e, come tutti gli scrittori, mi sento Dio. Sono io che decido ciò che
accade ai miei personaggi. Sono io che scrivo il loro finale.
Per Anna Politkovskaja un altro finale sarebbe stato possibile.
In Russia per lei c’erano odio, discredito, minacce.
«Ti uccideranno» continuavano a ripeterle.
«Lo so» continuava a rispondere lei.
All’estero, al contrario, le tributavano onori e ammirazione. Aveva il doppio
passaporto, russo e americano. Una nuova vita era appena oltre il confine.
Italia, Francia, Svezia. Tutti la volevano.
Ma lei ha scelto di rimanere.
«Lo faccio per i miei figli. Perché imparino a credere in una Russia migliore,
in cui le persone non mettono la testa sotto la sabbia, ma hanno il coraggio di
fissare il potere negli occhi».
Forse, le è mancato un movente abbastanza forte. Qualcosa per lasciare il
suo Paese, mettere in secondo piano i suoi principi, scegliere la vita e non la
morte.
Ecco, quel movente ho provato a darglielo io, con il mio romanzo.
Una ragione non per fuggire, ma per rinascere. E rispondere in modo diverso
alla domanda che può riassumere tutte le 180 pagine del libro: può l’amore
essere più forte del destino?