MOLLY BROWN
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Inaffondabili

ANDY WARHOL Faccia da tazza


andy warhol«Non appena si smette di desiderare una cosa la si ottiene. Trovo che questo sia un assioma».

E lui s’inchina alla massima che ha elaborato e sintetizza la crudeltà, ma anche la vena ironica dell’esistenza. Tanto vale allora piegarla, prenderla al lazo come un toro o un cavallo selvatico durante un rodeo metafisico.

Lui, anzi, ne fa il cuore stesso della carriera, della vita. Una sorta di nevrotica fuga da ciò che può affamarlo, rovesciando l’istinto alla fame in quello verso la fama.

Lui chi?

Indovinate.

Alchimista.

Apprendista stregone.

Psichedelico folletto folle d’una follia contagiosa.

Pittore. Scultore. Sceneggiatore. Produttore. Regista. Direttore della fotografia. Montatore. Attore statunitense, elenca Wikipedia.

Altri indizi?

Figlio di immigrati e d’una terra, l’attuale Slovacchia ch’era la più povera tra i poveri.

«Mio padre era spesso lontano per il suo lavoro nelle miniere di carbone, così non avevo modo di vederlo molto. Mia madre con il suo pesante accento cecoslovacco faceva del suo meglio per leggere delle storie e quando finiva Dick Tracy le dicevo sempre: Grazie, mamma, anche se non capivo una parola».

Tre esaurimenti nervosi a otto, nove, dieci anni.

Ballo di San Vito, bambole di carta ritagliate.

Uno come tanti?

Assolutamente sì, se da intendersi in quella ripetitività seriale, resa possibile dalla tecnica artistica che diventa la sua firma inconfondibile: dipingere su tele immense la stessa immagine utilizzando colori differenti e tutti estremamente vistosi, vivaci. 

I am not what I am

Non sono quello che sembro.

La battuta, d’onestà tautologica e crudele, sta in bocca al perfido Iago fin dalle prime battute dell’Otello shakespeariano. In traduzione la forza si smarrisce ma ne resta quella sorta di filo di ferro, l’anima indistruttibile che il nostro fa propria: non sono quello che sembro. Perché ho l’abilità di confondere, di cambiare, di ricredermi. In una trattativa incessante del gusto e della paura.

Con una grande, immensa certezza però: quella che ha segnato la nascita del Pop. E lui lo tiene a battesimo.

Sì, adesso sì, avete indovinato.

Andy Warhol (Pittsburgh, 6 agosto 1928 – New York, 22 febbraio 1987)

The Pop Man.

Faccia da tazza.

Ecco chi è, lui, la faccia da tazza per eccellenza.

Adesso sì che lo sapete di chi stiamo parlando.

Il primo uomo che ha fatto consapevolmente, scientificamente, disperatamente di se stesso un marchio. Instancabile omologatore d’una rivoluzione da luce stroboscopica, quella per l’Affermazione del Consumatore.

L’icona per eccellenza. Che si costruisce così: nei capelli, negli occhi indemoniati, nella ricerca spasmodica, da iperattività. Un’intensità in kiloampere che supera quella dei più intensi fulmini. E un nome ma soprattutto un viso riconoscibilissimo ovunque. Più di Topolino e Mao Zedong, Che Guevara o Marilyn, che ha tutti ritratto, ossessivamente, proiettandone l’immagine seriale nei colori più acrilici e sgargianti dalla tela alla nostra mente.

«Quel che ha di veramente grande l’America è di avere dato inizio al costume per cui il consumatore più ricco compra essenzialmente le stesse cose del più povero».

Insomma, democrazia. Che in Europa, culla ideologizzante, però non esiste.  «In Europa i re e l’aristocrazia hanno sempre mangiato molto meglio dei contadini: non mangiavano certo le stesse cose. C’era chi mangiava pernici e chi mangiava porridge, e ogni classe rimaneva fedele al proprio cibo».

La Coca-Cola e la Zuppa Campbell hanno cominciato a spianare la strada, a spallare il muro.

«Una Coca è una Coca e nessuna somma di denaro può permettere una Coca-Cola migliore di quella che beve il barbone all’angolo della strada». 

La ama, Andy, questa omologazione, l’impossibilità di usare gli oggetti per differenziare. Invece replicare. Una Blade runner ironica, dai toni acrilici, esagerati. Perché esagerare è la sola via che ci resta per sfatare una certa severità. Che ci riporta all’attacco, di tutto, a quel desiderio che, appena lo si smette, viene raggiunto.

Non un istante prima. Né dopo.

Esattamente in quel punto. Così incredibilmente umano, banale, eccitante, dozzinale, contraddittorio, invincibile che tanto vale farlo continuare – almeno il tempo d’una dose bulimica d’immagini.

L’hanno stupidizzato. Mercanti. Critici. Qualche volta anche osservatori. Facendo in fondo il gioco stesso che lui aveva orchestrato.

E se è vero che Andy Warhol deve morire perché le sue opere acquistino il valore vertiginoso che raggiungono – viene inserito nella classifica come secondo artista più comprato e venduto al mondo dopo Pablo Picasso -, già la metamorfosi è avvenuta.

Warhol non si spiega, si guarda.

Da Topolino ai fiori, a Kennedy, a Marilyn, alla Coca-Cola, alla zuppa, al detersivo, alla noia che è l’altra versione di noi stessi quando abbiamo paura. Meglio con quella faccia però che con la seconda. Anche se è un ibrido difficile.

Come quello che a lui viene attribuito, l’incrocio tra Dracula e Cenerentola, Drella appunto (Dracula + Cinderella).  A Andy non è che piaccia molto. Eppure quando muore, però, il 22 febbraio del 1987, dopo un intervento alla cistifellea, gli ex Velvet, Lou Reed e John Cale gli dedicano l’album che avrà questo titolo: Songs for Drella.

Perché mica tutto ciò che resta addosso piace.

Nemmeno la mitologia, o quell’aura, per definirla come aveva fatto lui stesso. Qualcosa che a un certo punto le aziende volevano comprare. «Comprare è molto più americano di pensare e io sono molto americano in questo», dice.

E noi con lui, ormai, per quella strana smania che ci ha instillato, tra occhi e bocca, riconoscendo che di Marilyn ce ne sono infinite e che allora una sarà anche tutta per noi, che diventiamo i migliori, i peggiori o comunque ossessivi serali psichedelici attori replicanti. Anche noi con una tazza che porta la nostra faccia e scritto, accanto il suo motto di qualunquismo teocratico: «Una nuova idea. Un nuovo look. Un nuovo sesso. Un nuovo paio di mutande».

Silvia Andreoli

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