Il re Vittorio Emanuele II s’innamorò della sua bella Rosina, legandola a sé in un amore diventato leggendario.
Ma perché Vittorio Emanuele II era chiamato “Re galantuomo”?
In verità non l’avevo capito finché non ho trovato questo ricordo, firmato regina Vittoria: «Era uno strano uomo, sregolato e spesso sfrenato nelle passioni (specialmente per le donne), ma un coraggioso, prode soldato, con un cuore generoso, onesto, e con molta energia e grande forza». La sovrana inglese l’aveva conosciuto nel 1855, in occasione di un viaggio a Londra che il Conte di Cavour aveva organizzato per il re. Ufficialmente per consolarlo dopo la morte della moglie Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena, molto più probabilmente a scopo diplomatico.
Il nostro fece colpo sulla regina, che nella sua corrispondenza privata lo descriveva così: «È un uomo rozzo. Balla come un orso, parla in modo sconveniente: ma, se entrasse il drago, sono sicura che tutti fuggirebbero, tranne lui. Sguainerebbe la spada e mi difenderebbe. È un cavaliere medievale, un soldato, questo Savoia».
E continuava: «Quando lo si conosce bene, non si può fare a meno di amarlo. Egli è così franco, aperto, retto, giusto, liberale e tollerante e ha molto buon senso profondo. Non manca mai alla sua parola e si può fare assegnamento su di lui».
Come non amare un uomo così? Dopo aver letto un simile giudizio non ci si meraviglia più scoprendo che Vittorio Emanuele II era anche un tombeur de femmes seriale.
Accreditatissimo presso le Corti europee, il “re galantuomo” aveva dalla sua una capacità innata: sapeva come accattivarsi le simpatie di tutti.
Vittorio Emanuele era e si sentiva un re, orgoglioso del passato millenario della sua dinastia.
Ma nello stesso tempo con la sua bonomia e il suo anticonformismo riusciva a dare ai suoi interlocutori la sensazione di mettersi sul loro stesso piano, come ha sottolineato lo storico Federico Chabod: «Qui era in gran parte il segreto del fascino ch’egli esercitò, indubbiamente, e non solo sui piccoli borghesi e sui contadini ma anche sugli uomini politici, qui era una delle sue doti vere di capo di Stato, che potè dunque agire personalmente, e non solo per imposizione o per consenso».
Le cronache raccontano che Vittorio Emanuele II, figlio di Carlo Alberto, soprannominato “l’Italo Amleto” crebbe come un giovane scavezzacollo, tarchiato e rubizzo, amante del vino, del gioco d’azzardo e delle belle donne. Tanto da far nascere la leggenda (a quanto pare mai smentita) che il vero erede fosse morto in un incendio e fosse stato sostituito in culla con il pargolo di un macellaio, tale Tanaca, che negli stessi giorni aveva denunciato la scomparsa del pargolo.
Nessuno ha mai risolto il dubbio, quel che è sicuro invece è che il titolo di “Padre della Patria” non era tanto dovuto alle imprese risorgimentali, quanto al gran numero di figli disseminato in tutto il Piemonte e oltre, tutti con il cognome Guerriero o Guerrieri che il re riservava ai figli delle sue amanti. Ma il suo unico vero e duraturo amore fu Rosa Vercellana, che riuscì sempre a trionfare su tutte le rivali e a tenere ben saldo il cuore del Savoia. Che da lei e dai loro due figli (Vittoria, nata nel 1848, ed Emanuele Alberto, nato nel 1851) ritornava sempre. Che piaccia o no, infatti, quella tra il re galantuomo e la donna che lui definì “compagna indivisa delle mie pene” è sì d’altri tempi. Ma è anche una storia di amore nel vero senso della parola. Un amore pacato, domestico e familiare, rasserenante malgrado tutto.
Conosciuta come la Bèla Rosin, Rosa era nata l’11 giugno 1833 a Nizza da Giovanni Battista e Maria Teresa Francesca Griglio. Il padre, dopo essersi distinto nell’esercito napoleonico, ottenne poi una medaglia al valore e il grado di “tamburo maggiore” nei granatieri di Sardegna. Nel 1847 la famiglia viveva a Racconigi, dove Giovanni Battista comandava il presidio della tenuta di caccia.
La leggenda narra che il colpo di fulmine scoccò quando l’erede al trono del Regno di Sardegna (che aveva 27 anni, quattro figli e uno in arrivo) la vede affacciata ad un balcone. I ritratti dell’epoca ci rimandano solo l’immagine di una donna prosperosa, dal viso squadrato e i tratti grezzi, ma con una gran massa di capelli corvini, occhi scurissimi e bocca carnosa. I primi tempi la ragazza, che ha soltanto 14 anni, viene ospitata in una villa nei pressi del Castello di Moncalieri, alle porte di Torino e le viene affiancata Madama Michela con il compito di insegnarle il bon ton. Mai compito fu più arduo. Addobbata con vistosi gioielli e preziosi vestiti, Rosa sarà subito snobbata dalla nobiltà sabauda. Soprattutto Cavour non tollerava questa relazione e cercò invano di separare con ogni mezzo i due. Invece il re, che nel 1855 restò vedovo, conferì nel 1859 alla sua Rosa il titolo nobiliare di contessa di Mirafiori e Fontanafredda, comprando per lei il castello di Sommariva Perno. La Bèla Rosin era da tempo l’ombra di Vittorio, lo seguiva con i figli ovunque. Anche dopo lo spostamento della capitale da Torino a Firenze e poi a Roma. E nelle eleganti ville in cui si rifugiava, il re sapeva di trovarla sempre pronta a togliergli gli stivali, a porgergli un sigaro intinto nel cognac e a preparagli un buon piatto di bagna caoda o quelle che ancora oggi si chiamano “euv a la bèla Rosin” con la maionese e il prezzemolo.
Nel 1869, il Re si ammalò e temendo di morire sposò Rosa Vercellana con il solo rito religioso nella tenuta di San Rossore vicino a Pisa: le nozze furono morganatiche in modo che né lei né i figli potessero mai reclamare nulla riguardo alla successione al trono. Dopo il matrimonio però Vittorio Emanuele II guarì e per qualche anno i due formarono una coppia regolarmente sposata. Il matrimonio civile, del quale però non esistono documenti, avvenne il 7 ottobre 1877, a Roma.
Sempre insieme nella vita, ma separati nella morte. Lui spirò a Roma il 9 gennaio 1878 per una polmonite complicata da una pleurite. Lei era lontana, bloccata da un’influenza nella tenuta della Mandria, a pochi passi da Torino, uno dei tanti nidi d’amore in cui la coppia amava trascorrere le vacanze. Dopo la morte del re, Rosa fu definita persona non grata dalla regina Margherita, le vennero requisite tutte le residenze in cui abitava ad eccezione del Castello di Sommariva Perno. Il 27 dicembre 1885 anche lei morì a causa del diabete nel palazzo Spinola Grimaldi di Pisa, dimora della figlia. Ma naturalmente non fu sepolta vicino al suo amato al Pantheon di Roma. Per questo Vittoria ed Emanuele decisero comunque di riunire idealmente i genitori e fecero edificare in zona Mirafiori a Torino un Pantheon in miniatura. Ma dagli anni ’70, dopo una serie di profanazioni, le spoglie sono custodite al Cimitero Monumentale di Torino.
Rosa non fu nemmeno una patriota che lottò per l’unità d’Italia o una testimone attiva del Risorgimento. Si limitò a custodire il suo piccolo mondo antico alle sue condizioni, mescolando amore e furbizia. Con lei, vera anima gemella per gusti e attitudini, il primo re d’Italia poteva finalmente smettere gli stretti panni del sovrano per vestire quelli di un semplice uomo amato, compreso e accettato dalla sua compagna per quello che era veramente.
E forse l’epitaffio più azzeccato è quello scritto da Roberto Gervaso nel libro La bella Rosina. Amore e ragion di stato in Casa Savoia (Bompiani, 1991): «Vinse la battaglia fingendo di perderla, catturò Vittorio dandogli l’impressione di consegnarsi a lui. Una conquista frutto di astuzia, ma anche di acume e tempismo. Fra concessioni ch’erano rivendicazioni e perdoni ch’erano moniti. Se Vittorio se ne accorse, non sappiamo. La sua condotta, comunque, non mutò. A Rosa non avrebbe più rinunciato. Gli piaceva così, la voleva così. E, per trent’anni, così la ebbe».
Una “Regina senza trono e senza corona”, la definì il poeta Costantino Nigra. Ma una vera regina di cuori.