“Non mi sposo perché non mi piace avere della gente estranea in casa”. Alberto Sordi aveva fatto di questa battuta un suo mantra personale e chissà che penserebbe delle decine e decine di estranei che hanno già prenotato una visita per ammirare la sua villa, situata alle radici dell’Appia Antica, di fronte alle Terme di Caracalla. Un’occasione unica per entrare nell’intimità di questa icona del cinema italiano, a cento anni dalla nascita (Roma, 15 giugno 1920).
Per la prima volta, dal 16 settembre al 31 gennaio 2020, le numerose sale (oltre il giardino e il Teatro dei Dioscuri) saranno protagoniste della mostra Alberto Sordi 1920-2020, per scoprire abitudini, passioni e segreti.
Il grande attore romano comprò villa Druso (dal nome della via in cui sorge, progettata negli anni Trenta dall’architetto Clemente Busiri Vici) sottraendo l’affare a Vittorio De Sica che era già in trattativa.
Appena la vide, infatti, se ne innamorò. Lui aveva i contanti, mentre De Sica, che aveva appena perso una somma folle al gioco, no. Il contratto fu presto fatto. Era la primavera del 1954 e da allora divenne il suo rifugio.
Ad accogliere i visitatori (visite su prenotazioni a piccoli gruppi) è il raffinato teatro-sala di proiezioni, ricavato dalla legnaia, proprio all’ingresso. Camerini in maiolica blu, il sipario firmato da Gino Severini, un pianoforte a coda e sculture qua e là di Andrea Spadini. Ovunque dominano i velluti, dai divani e poltrone del salotto – verde bottiglia, broccati fantasia fiorati – fino alle tende, passando per le sedie settecentesche in sala da pranzo. Anche le porcellane occupano gran parte dello spazio: una gran parete di multicolori uccelli di porcellana cinese poggiati su mensole dorate in legno scolpito, tra barocco e rococò.
Nello studio al primo piano, sulla mensola del camino, anch’esso barocco, spiccano in sequenza i premi che l’artista ha ricevuto durante la sua lunga carriera: undici David di Donatello, quattro nastri d’argento, il Leone d’Oro di Venezia alla Carriera nel 1995 e il Leone speciale del 1959 per La Grande Guerra, un Orso d’argento da Berlino, sei Grolle d’oro, sei Vittorie alate. E ancora chiavi simboliche di città, cittadinanze onorarie, lauree honoris causa.
Appoggiata su una libreria, una targa che fa sorridere, con la scritta: “A ogni uomo che nasce, il destino assegna una donna; la felicità sta nel riuscire ad evitarla per tutta la vita”.
E Sordi pare esserci riuscito, anche se ha frequentato sempre donne belle e affascinanti. Tra queste Silvana Mangano, ritratta con lui in un magnifico scatto in bianco e nero; Andreina Pagnani; l’attrice austriaca Uta Franz (che aveva avuto il ruolo di Elena di Baviera nella trilogia di Sissi con Romy Schneider) con la quale, si racconta, avrebbe dovuto sposarsi, cosa che non avvenne mai. Terrorizzato, infatti, mandò un suo amico dai genitori di lei, che allora aveva 19 anni e Sordi 34, come ambasciatore per questo messaggio: ”quest’anno non possiamo sposarci perché siamo molto occupati”. Nel 1989, fu ospite di Enzo Biagi al programma Il Fatto. Il giornalista gli domandò che cosa avessero rappresentato le donne per lui e Albertone riassunse il suo pensiero: «Alle donne devo tutto. Devo la vita, perché io sono stato molto corteggiato. Facevo il ballerino di fila con quarantadue ballerine che venivano da tutto il mondo. Ho bruciato le tappe della sessualità. Sono sempre stato circondato da donne ma non ho mai avuto la necessità di una compagna».
Al pianterreno si trova anche una sala che racchiude un po’ di tutto:
una cyclette dei primi Novecento Rossel, una libreria ricca di volumi d’antiquariato, due scaffali di testi di storia del teatro, attrezzi in legno da palestra alla parete, una sella meccanica per misurare la resistenza. Quest’ultima, si narra, servisse per divertenti gare serali tra amici, anche con Anna Magnani.
Incredibile il suo guardaroba infinito, dove a predominare sono i colori della terra, dal beige al tabacco, al testa di moro. Un cassetto pieno di guanti, anche quelli nella stessa tonalità e decine e decine di scarpe, quasi tutte in marrone.
Curiose, pure, le numerose bottiglie di liquori e vini ancora integre, spesso ricevute in regalo. Molte sono rare perché prodotte da aziende che non producono più. Tra gli altri pezzi imperdibili, una sterminata collezione di telefoni Sip-Siemens con il disco numerico, simbolo dell’Italia del benessere, uno per ogni stanza, persino nel bagno poggiato su un tavolino verde, accanto al water.
Sordi aveva molta fede e tracce del suo fervore religioso si ritrovano ovunque.
Sul comò, in evidenza una sua foto con Giovanni Paolo II e una riproduzione della Madonna del Divino Amore. In cucina si legge: «Dove c’è la Fede c’è l’amore/ Dove c’è l’amore c’è la pace/ Dove c’è la pace c’è Dio/ Dove c’è Dio non ci sono le pene». In giardino, dietro la piscina, c’è una Madonna in ceramica bianca alta un metro, con un’aureola di stelle, incastonata in una piccola grotta. Lì si recava a pregare ogni mattina. Proprio di fronte alla statua della Vergine Maria, c’è anche il cimitero dei suoi amati cani. Qualcuno ipotizza circa una ventina di tutte le razze che negli anni gli tennero compagnia.
E per celebrare questo mito cinematografico, vale la pena rivedere “Permette? Alberto Sordi”, film uscito lo scorso marzo e diretto da Luca Manfredi (figlio di Nino e testimone di incontri tra suo padre e Albertone), con un eccezionale Edoardo Pesce nel ruolo del giovane Alberto. Racconta i suoi esordi, l’amicizia destinata a durare nel tempo con il giovane Federico Fellini, che da lì a poco lo dirigerà ne Lo Sceicco Bianco e I Vitelloni (sua la pernacchia più celebre del cinema italiano!). Un film che sintetizza i vent’anni in cui Sordi è diventato l’Albertone nazionale, l’uomo che – come disse Ettore Scola – “non ci ha mai permesso di essere tristi”.